Era il 2006 quando in Italia uscì un libro destinato a suscitare grandissimo scalpore, a generare discussioni e polemiche, a varcare ben presto i confini nazionali. Quel libro era Gomorra, opera prima di un allora quasi sconosciuto Roberto Saviano, romanzo di denuncia che difficilmente poteva passare inosservato. Sono passati due anni e un talentuoso cineasta romano ha deciso di cimentarsi nella non semplice trasposizione cinematografica del best-seller in questione. E ha fatto centro: gran premio della giuria al Festival di Cannes, grande successo al botteghino, e, parlando in termini più generali, si ha l’impressione che con quest’opera si sia riusciti a dare nuova linfa vitale al cinema italiano. Matteo Garrone porta sullo schermo diverse storie che si intrecciano sullo sfondo di una Campania desolata, grigia e corrotta (resa straordinariamente dalla fotografia di Marco Onorato), ma comunque pulsante di vita. Quel che si presenta davanti agli occhi dello spettatore è un crudo e asciutto spaccato di vita, una vita pesantemente condizionata da un vero e proprio sistema, una piovra tentacolare: la camorra, che finisce per avvinghiare tutto e tutti, più o meno consapevolmente. Al bando le facili spettacolarizzazioni, al bando lo spettacolo fine a se stesso, al bando perfino gli stereotipi hollywoodiani che si sono visti in tanti film di mafia (non banale né certo casuale il riferimento esplicito a un capolavoro di genere come Scarface). Il film di Garrone è angosciante, un vero mattone sullo stomaco, difficile da digerire e a tratti scioccante. L’intero film analizza con spietata freddezza un mondo sconvolto, abitato da gente comune immersa suo malgrado in una realtà alla quale è impossibile opporsi: un contesto in grado di condizionare le vite, e soprattutto le menti, di chi inevitabilmente ne viene infettato. La magistrale direzione degli attori (sia professionisti che esordienti) dà vita a personaggi davvero intensi, in grado di convincere abbondantemente. La macchina da presa si muove con maestria, segue fedelmente i passi dei protagonisti, gioca con l’utilizzo di soggettive alternate a campi lunghi e riprese aeree, il tutto per rendere al meglio l’atmosfera claustrofobica che attanaglia l’intera pellicola. Emblematico l’episodio dei due ragazzi che giocano a fare i gangster, Marco e Ciro, in lotta contro tutto e tutti, prendono la vita come un gioco, ribelli di nascita, insolenti ed imprudenti, non ascoltano nessuno e passano le giornate fra furti e soprusi, citando battute hollywoodiane e costruendo nelle proprie menti una sorta di miraggio della Miami depalmiana. Così giovani, così arroganti, così sicuri di riuscire sempre a cavarsela in un modo o nell’altro, ma in realtà così profondamente vittime. Vittime di un sistema che annulla le personalità, che rende schiavi di una realtà dalla quale non è possibile liberarsi, e che vede nella violenza l’unica via per “diventare qualcuno”. Un film da non perdere, crudo, angosciante, ma profondamente umano e mai compiaciuto nel mostrare una violenza, che non è mai fine a se stessa, ma solo l’espressione di un sistema che non conosce altri codici né linguaggi. Splendido.