L’idea di raccontare gioie (per gli occhi sicuramente), dolori e disavventure di un "go go" cabaret, meglio conosciuto come nightclub, era già venuta all’Andrew Bergman di quello Striptease che attirò su di sé critiche e infamità di ogni sorta (sorte migliore non tocco neppure a Showgirls), inanellando record di premi di demerito che lo hanno introdotto a pieno titolo fra le peggiori creature “hollywoodiane” (ricordarsi qualcos’altro oltre le curve di Demi Moore risulta compito assai arduo). Abel Ferrara si cimenta così con le atmosfere di una Manhattan interamente ricostruita a Cinecittà, affidando ad uno dei suoi interpreti più fidati (Willem Dafoe) il ruolo di Ray Ruby, impresario a capo del Paradise club, una specie di night a conduzione “pseudo-familiare” dove le persone che ci lavorano, tra pregi e difetti, si conoscono e si osservano l’un l’altro da anni. Accompagnano Ray il contabile Jay (Roy Dotrice), il fidato Baron (Bob Hoskins), il fratello - nonché principale finanziatore - Jhonie (Matthew Modine) e uno stuolo di incredibili bellezze a formare la scuderia di "lap dancers" (Asia Argento, accompagnata dall’ormai celeberrimo rottwailer, e una Bianca Balti che definire bellissima è senza dubbio un eufemismo, spiccano su tutte). L’intento di Ferrara è quello di dar vita ad una commedia tinta qua e là di pennellate noir puntando sul brio e sull’esperienza di attori navigati quali Dafoe e Hoskins, in grado spesso e volentieri di fare la differenza. Eppure non basta la buona prova della maggior parte del cast a sorreggere una sceneggiatura quasi sempre piatta, sviluppata sin troppo rapidamente e in maniera frettolosa anche quando meriterebbe di essere approfondita in quelle poche ma buone intuizioni. Altra grossa lacuna è quella di aver dato alla pellicola un ritmo che stenta a decollare o ad incanalarsi verso una direzione definita. Sembra così di assistere ad un'opera il cui intento sia quello di sviluppare due temi (quello del noir e quello della commedia) senza per questo riuscire a fare centro nell’uno né l’altro, dando più volte l’idea di una costante approssimatezza formale. E’ difficile riuscire a ricordare un guizzo o una scena che prevalga sulle altre, e ben poco rimane di quell’ambiguo e malsano approccio che tanto ha affascinato nella filmografia di Ferrara. Tra le note positive si può citare il lavoro sulla fotografia di Fabio Cianchetti che aveva incantato già con The Dreamers e quello di scenografia che ricostruisce alla perfezione l’atmosfera di una New York anni 40 immersa in una vita notturna degna delle migliori copertine di Tom Waits. La regia di Ferrara è impeccabile come sempre anche se non riesce a risollevare le sorti complessive del film che rimane ancorato nei sui continui alti (pochi) e bassi. Insomma, non si toccano i pessimi livelli dei film citati nell'incipit della recensione, ma si può dire che il nostro non si sia sforzato poi così tanto nell’allontanarsi da quegli infami esempi. Provaci ancora Abel...