
Per diciotto anni Errol Babbage ha prestato servizio come agente di pubblica sicurezza, con l’incarico di monitorare predatori sessuali in libertà vigilata e cercare di prevederne le mosse. Logorato dallo sporco lavoro, ossessionato da un passato che urla nelle solinghe notti di veglia, Babbage, moralmente corrotto dalla sordida realtà che ogni giorno affronta, e che lo porta ad utilizzare metodi poco ortodossi, avverte l’abisso profondo che gli si spalanca sotto i piedi. L’ultima prova prima della pensione anticipata sarà addestrare la giovane e inesperta Allison Lowry, incaricata di sostituirlo una volta lasciato il dipartimento, e insieme a lei, mettersi sulle fumose tracce di una ragazza scomparsa: un caso che richiamerà vecchi fantasmi, ma anche l’estrema occasione di sciogliere i nodi irrisolti di una colpa lontana, e volgerli in un’agognata catarsi liberatoria. Il soggetto prende le mosse da alcuni dati di cronaca che testimoniano l’altissimo numero di donne sessualmente abusate in America. Dall’approccio cronachistico si passa senza soluzione di continuità alla finzione filmica, dominata dal protagonista, Errol Babbage (Richard Gere), personaggio inquieto, per lunghi anni a stretto contatto con la parte marcia della società , e infettato moralmente dalla realtà nella quale è invischiato. Per questo i suoi metodi di sorveglianza sfociano nella violenza, non solo fisica ma anche psicologica, e diviene talvolta follia bruta e incontrollabile. E la corruzione dei suoi metodi coinvolge anche il rapporto lavorativo con la giovane Allison, (l’attrice Claire Danes), che Babbage inizia alla professione e al ruolo che le compete spiattellandole la cruda e spigolosa verità sulla loro professione. Quello che davvero manca alla pellicola, per quanto possa essere digerito come un discreto thriller, è la poca attenzione ai personaggi – le scene, le inquadrature, non coadiuvano la loro dimensione intimistica, che sembra quasi non trovare spazio sufficiente tra una sequenza e l’altra –, uno sprofondamento psicologico poco curato, o comunque non abbastanza tormentato né sufficientemente disturbante viste le tematiche affrontate. Anche le immagini salienti, più cariche di tensione visiva, risultano parte di una congerie di elementi eccessivi (le immagini di rituali pseudoesoterici, mutilazioni, corpi oltraggiati senza criterio) che non coinvolgono lo spettatore alla suspence emotiva, né ad una apprensione nei confronti dei personaggi, né alla pietas, altrimenti naturale nei minuti risolutivi del film. Nel cinema la diffusione planetaria di un nome vale una promessa. Andrew Lau, con il suo osannato Infernal Affairs (premio Oscar al remake americano di Scorsese) è entrato volente o nolente in questo duro circolo di leggi che sostiene lo show business mondiale. E la promessa che il regista cinese si è trovato a dover mantenere era ardua: non di bissare il successo della trilogia, ma quanto meno di fornire un’opera stimolante, dal taglio visivo insolito, viste le grandi qualità registiche apprezzate nei precedenti lavori. E invece – complice lo script di Bauer e Mitchell che ricalca certi abusati schematismi del genere thriller – Identikit di un delitto, opera prima di Lau in suolo statunitense – e che, paradossalmente, non è stato nemmeno distribuito nelle sale americane –, lascia con l’amaro in bocca tutti coloro che avevano riposto ingenti aspettative. Nonostante alcune sequenze di buon effetto – soprattutto nella seconda parte della pellicola con inseguimenti e immersioni allucinate negli oscuri e sordidi quartieri dei sobborghi americani –, le scelte stilistiche non riescono a mantenere vivo il ritmo nella prima mezz’ora del film, e volgono all’ispirazione dalla fonte fortemente americana del genere thriller di nuova generazione, di cui Demme e Fincher sono stati negli anni Novanta, gli iniziatori. Soprattutto Seven, sembra essere in effetti, il più diretto e citato (palese nella scena dell'epilogo) antecessore. Non risolleva le fragili basi del film la scelta del cast, dai chiari intenti commerciali. Richard Gere, che già aveva rischiato la vita in quel di Pechino nel film di Jon Avnet L’angolo rosso, segue nuovamente orizzonti orientali facendosi dirigere dal regista di Hong Kong, in un ruolo non proprio tagliato per le sue doti attoriali, ormai misurate sulla fama di sentimental-comedies; nelle vesti inusitate fatica non poco, come nell’introspezione emotiva e aberrante del suo personaggio. Tralasciando il poco incisivo cameo di Avril Lavigne (degno di nota soltanto per i numerosi fanatici della singer americana), è sicuramente Claire Danes a fornire la prova più apprezzabile dell’intero cast: una sceneggiatura inedita per l’attrice, affrontata con molta più maturità della lontana Juliet di Luhrmann, ma con la stessa dolcezza e grinta, proprie del suo innato talento.