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WALL•E

25/10/2008 11:00

Giacomo Ferigioni

Recensione Film, Pixar,

WALL•E

Se la natura (oramai) esclusivamente manageriale della collaborazione tra Disney e Pixar era già evidente in film come Ratatouille, la visione di WALL·E non può

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Se la natura (oramai) esclusivamente manageriale della collaborazione tra Disney e Pixar era già evidente in film come Ratatouille, la visione di WALL·E non può che confermare l'ormai completo distacco artistico della Pixar dalla base disneyana.


Il film di Andrew Stanton (già autore di Alla ricerca di Nemo), si pone due sfide. La prima riguarda le dinamiche che animano il film stesso: non tanto il far poggiare il peso del film su un robot, per quanto antropomorfizzato questo possa essere (con le conseguenti difficoltà, da parte del pubblico, di identificarsi col protagonista: si pensi, a riguardo, al parziale flop di Cars); quanto, piuttosto, il popolare gli ambienti ove la vicenda si svolge con personaggi incapaci di comunicare tramite la parola, prosciugando quasi del tutto il film dei dialoghi (la prima parte del film è priva di qualsivoglia dialogo) e dando agli stessi protagonisti e alla loro mimica (un'animazione digitale sempre più portentosa) il compito di raccontare.


WALL·E, inoltre, prosegue una sorta di discorso già iniziato dalla Pixar in film come Gli Incredibili o Ratatouille; la progressiva rinuncia al compromesso, al tentativo, cioè, di mettere d'accordo due diverse generazioni di spettatori. Più di tutti gli altri lavori citati, WALL·E esalta la matrice adulta che i film Pixar - pressoché da sempre - hanno più o meno celato. La rinuncia al ritmo vertiginoso permette, più delle altre volte, di apprezzare a fondo la maturità di uno sguardo registico: Stanton, più che ad una qualsivoglia morale, sembra più interessato a sfruttare (e a superare) le convenzioni di genere per osservare un mondo futuristico che cerca di spiegarsi da solo attraverso la sua stessa esistenza. Si pensi alle prime sequenze, dove vediamo il minuto protagonista del titolo (un robot-spazzino, sorta di ibrido tra l'E.T. di Spielberg e Numero 5 di Corto circuito) muoversi lungo un pianeta deserto tra vecchie costruzioni e cartelloni pubblicitari un tempo fatiscenti, smaltendo rifiuti e, allo stesso tempo, conservando e catalogando oggetti testimoni di una realtà che, a quanto pare di capire (i giornali fanno riferimento all'eccessiva presenza di spazzatura nel pianeta), è sparita per autodistruzione. Oppure allo sguardo freddo e cinico con il quale Stanton descrive gli umani sopravvissuti in una navicella orbitante nei pressi del pianeta; incapaci di imparare dai propri errori, freddi, anonimi, accidiosi e obesi abitanti di una città fatta su misura, costruita in modo da evitargli ogni qualsiasi tipo di attività manuale, finto e plasticoso benessere che nasconderà intrighi ben più grandi, incapaci di provare le emozioni (e, quindi, di uscire da un percorso perfetto in quanto precalcolato) che, per contrasto, provano i protagonisti del racconto. La vicenda, infine, acquisisce uno spessore ulteriore che nasce dalla nostra memoria. In particolar modo da quella cinefila, con vasti mondi fantascientifici che ci permettono di confrontarci con universi alla George Lucas quando non con personaggi kubrickiani (l'antagonista non può non ricordare HAL 9000); senza dimenticare l'ossessione del protagonista per il musical, genere che più d'altri fa leva (anche con ingenuità) sul romanticismo, sentimento della quale la razza umana oramai pare essere quasi del tutto priva e del quale WALL·E si è fatto depositario.


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