Dopo essere stato svezzato niente meno che da David Lynch (produttore esecutivo di Cabin Fever), l’enfant prodige dell’horror decide di crescere sotto l’ala di Quentin Tarantino (produttore anche del sequel). E cresce decisamente in maniera convincente. Hostel è una pellicola che funziona, cuoce a fuoco lento (invertendo parecchio dalla frenesia degli horror moderni) e viene privata in gran quantità di abusati clichè. Merito anche dell’influenza che il film subisce, se nel sequel Ruggero Deodato ci ricorda le origini nostrane, in questo caso la presenza di Takashi Miike dà assolutamente conferma dell’ispirazione asiatica che questo film, specialmente nelle location, ha indubbiamente. Si crea il neologismo «gorno» (gore + porno), con l’introduzione (anche piuttosto lunghetta) dei personaggi in giro per l’Europa dell’est alla ricerca di sesso facile e sballo vario (la tappa ad Amsterdam ovviamente non è casuale). Ma come avviene in una buona parte di film di genere ecco che puntuale, il contrappasso bussa alla porta dei protagonisti. E dalla ricerca del divertimento più spensierato vengono fatti entrare in un vortice di perversa violenza - punta di diamante di un giro gestito da potenti uomini d’affare. È un’ascesa lenta e insieme bruscamente violenta, veramente destabilizzante (specialmente in certe soggettive) ed enfatizzata dall’abilità di Roth nel farci immergere prima con inquietantissimi suoni di attrezzi di morte e urla, poi con la visione in primo piano delle torture. Ci colpisce prima con l’orecchio, poi con gli occhi, quasi facendoci assaporare il sapore del sangue. Davvero ammirevole il coraggio di Eli Roth nel voler riprendere in mano un filone di horror genuinamente scioccante, audace e libero dalle catene dell’entertainment moderno; quasi a ricordarci un paradosso fondamentale di questo genere: se un horror non disturba vale la pena definirlo tale?