Dopo i trionfi della trilogia fantasy de Il signore degli anelli, il pubblico aspettava una grande prova da Peter Jackson, diventato ormai uno dei personaggi più potenti ed influenti dello star system hollywoodiano. Del resto, il talento certo non gli manca e lo aveva dimostrato fin dai primissimi (e geniali) lavori a basso budget come Bad Taste e Splatters. Girati con amici durante i fine settimana erano già intrisi di quella pungente ironia e gusto per la dissacrazione che caratterizzeranno anche le sue produzioni future, unite ad una padronanza della macchina da presa che poco aveva da invidiare a colleghi ben più blasonati. Così, dopo il successo planetario della trilogia tolkeniana, il regista neozelandese era atteso al varco: un grande budget a sua disposizione, 207 milioni di dollari e la necessità di stupire nuovamente il mondo con un kolossal di grande impatto visivo, un grande cast e una campagna pubblicitaria martellante.
La storia è nota a tutti, in fondo si tratta del remake di una pietra miliare del cinema, quel {a href='http://www.silenzioinsala.com/3948/king-kong/scheda-film'}King Kong{/a} diretto nel 1933 da Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, una seconda volta nel 1976 da John Guillermin, e che il pubblico di tutto il mondo era entusiasta di poter rivedere sul grande schermo nel 2005, con le nuove incredibili possibilità offerte dagli effetti speciali e con la straordinaria forza visiva che Jackson avrebbe potuto dare ad un vero e proprio mito dell’immaginario comune. L’occasione era decisamente ghiotta e il regista neozelandese aveva finalmente la chance di realizzare il film che voleva girare fin da bambino.
Come ogni remake hollywoodiano che si rispetti anche Jackson segue l’infallibile regola del «bigger, faster, better», proponendoci un kolossal che in ogni minimo elemento rappresenta la dilatazione, l’esagerazione del film originale, perfino nella durata che dai 103 minuti del lontano precursore forza i 187 minuti. L’allungamento dei tempi della messa in scena è sovrabbondante, tutto è imponente, facendo abuso di effetti speciali e in genere di sequenze action, rischiando, in più di un frangente, di lasciarsi sfuggire dalle dita il filo della vicenda. Ci viene mostrata ogni sorta di creatura, dai mostri aracnoidi agli insetti giganti, fino ai T-Rex famelici, in una sorta di commistione fra Jurassic Park e Godzilla che francamente solleva più di un dubbio. Nel complesso si tratta di un buon film: ci sono tutte le trovate che da sempre caratterizzano il cinema di Jackson, e che lo hanno reso tanto amato, dall’ironia sapientemente dosata alle inconfondibili skycam che ricordano inevitabilmente i grandi spazi della trilogia tolkeniana. I tocchi di classe non mancano, basti pensare allo splendido affresco della New York degli anni Venti, realizzato con cura maniacale. Bravi anche gli attori, con un Jack Black ottimamente calato nella parte ed una Naomi Watts come sempre all’altezza della situazione, che riesce veramente a plasmare un rapporto credibile e convincente con un gorilla di 8 metri. Anche gli spunti di riflessione che la visione della pellicola suggerisce sono molteplici, a cominciare dall’impossibilità fondamentalmente insita nel rapporto fra la bella e la bestia, per arrivare ai limiti che l’uomo è disposto ad oltrepassare pur di raggiungere i propri scopi, senza dimenticare una esplicita riflessione sul mondo stesso del cinema, la sua impazienza di spingersi oltre nuove frontiere, e su chi, in questa febbrile corsa, mette in gioco la propria vita e quella degli altri. Peccato per l’oltremodo vistoso gusto per l’eccesso e per una continua ricerca dell’esagerazione visiva, che porta, inevitabilmente, all’esasperazione del monster movie classico. Non si fosse chiamato Peter Jackson, non fosse stato King Kong, sarebbe stato un capolavoro. Purtroppo, viste le premesse, era lecito aspettarsi di più.