Juan Antonio Bayona, giovane regista di Barcellona, si era finora distinto per buone produzioni di cortometraggi e deliranti videoclip. Con The Orphanage approda finalmente al cinema, e un esordio così convincente difficilmente si è visto in tempi recenti. Sotto l’ala protettrice del produttore esecutivo Guillermo Del Toro, il cui nome ormai è quasi sempre sinonimo di garanzia, il giovane cineasta porta sullo schermo una storia tormentata ed inquietante, ma anche ben scritta, ottimamente curata nella messa in scena e profondamente toccante. Per farlo sceglie di allontanarsi dai canoni dell’horror americano, e allo stesso tempo prende anche le distanze dagli ultimi esempi orientali, rinunciando a qualsiasi effetto truculento o a qualsiasi movimento di camera iperattivo. Sembra la limpida affermazione che per creare paura ed inquietudine nello spettatore non basta qualche brusco aumento di volume o qualche spaventoso flash improvviso. Il giovane Bayona piuttosto prende spunto dalla vecchia tradizione dell’orrore, più specificatamente quello legato al tema delle case infestate. I riferimenti pertanto sono da ricercare nell’horror di stampo classico (su tutti l’indimenticabile Gli Invasati di Robert Wise), con la conseguente drastica limitazione di effetti speciali e l’affidamento a elementi ben più semplici – porte che sbattono, cardini che cigolano, pavimenti che scricchiolano – e, soprattutto, ad una solida e coinvolgente sceneggiatura. Il regista dimostra inoltre di avere ben recepito la lezione degli ultimi riuscitissimi horror di matrice spagnola, come The Others di Alejandro Amenabar e La spina del diavolo dello stesso Del Toro, realizzando un film che è praticamente concepibile come una nuova esperienza sensoriale, dove conta più “il sentire” che non “il vedere”. Giovano in questo senso le splendide atmosfere e gli straordinari effetti sonori. L’innegabile tensione viene ricreata semplicemente attraverso lo sviluppo della storia, attraverso movimenti di camera ovattati, attraverso tanti piccoli dettagli che nell’insieme contribuiscono a creare nello spettatore un profondo senso di inquietudine. Inoltre i due protagonisti indiscussi, ai quali la pellicola deve gran parte della propria riuscita si rivelano scelte puntualmente centrate: la casa e la splendida Belen Rueda. La casa coloniale è quanto di più adatto si potesse trovare per realizzare una storia simile: oscura, asimmetrica, piena di cunicoli, porte segrete e corridoi scricchiolanti. La meravigliosa Belen, già vista in Mare Dentro di Alejandro Amenábar, sfodera un’interpretazione di grande intensità, realizzando con estrema efficacia il ritratto di una madre tormentata, apparentemente fragile, ma in realtà dotata di una straordinaria forza interiore, anche quando ogni cosa sembra perduta. La suspence certo non manca, così come i momenti di tensione. E in generale si ha l’ìmpressione che il regista voglia andare decisamente oltre le componenti più prettamente orrorifiche, proponendo temi diversi, approfondendo le dinamiche psicologiche della protagonista, il suo passato, le sue angosce, per giungere alle umanissime tematiche del superamento di una grave perdita o i difficili rapporti all’interno del nucleo familiare. Imperdibile.