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Come Dio Comanda

14/12/2008 12:00

Leone Auciello

Recensione Film,

Come Dio Comanda

“C’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada...

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“C’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada.” Così cantava Fabrizio De Andrè. Parole da cui fuoriescono i personaggi che animano la nuova pellicola di Gabriele Salvatores. Al di là della società. Fuori dagli schemi canonici sentimentali. Borderline nelle emozioni e nella concretezza della vita. Si intravedono due figure in lontananza. Rino e Cristiano. Padre e figlio. Simboli di un amore rabbioso, esclusivo, contro tutti, ma estremamente intenso. Si può dunque insegnare rabbia con amore? Il quesito trova risposta positiva in questo film, che ripropone nuovamente il fortunato ed ormai affiatato connubio Salvatores-Ammaniti, dopo il superlativo successo avuto con Io non ho paura.


Cambiano i colori, i paesaggi. Dal profondo sud ci spostiamo nel freddo monocromatico Nord-Est. Una landa desolata si estende dinanzi ai nostri occhi sino a perdersi nelle maestose montagne friulane. L’imponente natura è puntellata da piccole case, fabbriche sparse, solitarie, nelle quali la vita va avanti lentamente, senza conoscere brio. In questo tetro sfondo abitano Rino, lavoratore precario, bevitore e portatore di strampalati ideali neo-fascisti e suo figlio Cristiano, studente delle medie, che ama o meglio idolatra la sua figura paterna. Lezioni di vita aspre, animalesche, portatrici di un sentimento forte, puramente irrazionale, capace di lanciare regole nel precipizio dell’istinto. Due persone e il vuoto intorno. Un estraniarsi da un mondo dagli ideali corrotti, una realtà ristretta, popolata unicamente dall’amico di vecchia data Quattro Formaggi, il cui cervello ha iniziato a mal funzionare in seguito ad un incidente in fabbrica. Un tocco di follia surreale prende vita nel passatempo preferito di questo buffo personaggio: una casa trasformata in un enorme presepe, costruito con pupazzi di ogni genere raccolti per strada.


Prende così vita un’opera di natura Shakespeariana in cui ruotano i destini di un re padre-padrone, Rino, il figlio-principe Cristiano ed il fool, il matto-buffone di corte, Quattro Formaggi. Una prima parte o atto in cui i personaggi si mostrano al pubblico, un secondo atto in cui i protagonisti si perdono in un bosco desolato nel mezzo di una tempesta ed un atto conclusivo, una redenzione che porta ad una trasformazione emotiva. L’acqua cade copiosa e fa scivolare via l’odio, che si perde tra le gocce di pioggia, bloccandosi in un fango in cui rimangono intrappolate corpi e sentimenti. Salvatores segue i personaggi da vicino, entra nelle loro vite, nelle loro case, osservando con comprensione quasi affettiva i passi, gli errori delle anime che ruotano sul palcoscenico. Una scena osservata da vicino, quasi sempre con un telecamera a spalla, a sottolineare la presenza dell’Uomo e non del Dio. Un Dio che volta le spalle e non guarda. E come Jacques Prevert i personaggi urlerebbero a gran voce: “Padre Nostro che sei nei cieli | Restaci”. Silenzio.


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