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The Horsemen

16/01/2009 12:00

Daniela Silvestri

Recensione Film,

The Horsemen

Prendete qualche schizzo di sangue di Saw e un versetto della Bibbia, aggiungete un poliziotto americano rabbioso e pacificatore, una ragazza dai tratti orien

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Prendete qualche schizzo di sangue di Saw e un versetto della Bibbia, aggiungete un poliziotto americano rabbioso e pacificatore, una ragazza dai tratti orientali che occhieggia a Lady Vendetta e una serie di omicidi seriali ispirati ai cavalieri dell’Apocalisse. Mischiate il tutto con una serie di montaggi veloci, con frenetici salti da ampi piani sequenza a claustrofobici interni, ed avrete la formula – poco magica – dell’ultima pellicola di Jonas Akerlund, The Horsemen.


Aidan Breslin (Dennis Quaid) è un poliziotto, esperto – e forse questo è il lato più originale del film – in odontologia forense. Rimasto prematuramente vedovo e padre di due figli, Aidan si dedica anima e corpo al proprio lavoro, trascurando la famiglia che, alle sue spalle, nasconde segreti inquietanti. Nel frattempo, una serie di efferati omicidi seriali, legati alla profezia dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, non solo sta sconvolgendo la città, ma anche lo stesso Breslin che, nel corso delle indagini, scopre una serie di connessioni e legami tra lui e i sospettati. Un cavaliere bianco, il leader più spietato e da alcuni ritenuto l’Anticristo, un cavaliere rosso, che semina guerra e conflitti, un cavaliere nero, in nome della carestia e della pestilenza che lascia dietro le sue spalle e un cavaliere verde, la morte, che dietro sé lascia il nulla. Una serie di omicidi ed esecuzioni legati da un filo comune, da sentimenti perversi che mano a mano si dipanano e si autosvelano sotto gli occhi del detective.


The Horsemen è un film debole sotto molti punti di vista. Il cast vede protagonista un Dennis Quaid stanco, imbolsito, che non regala una performance degna della sua fama, insieme a Zhang Ziyi, che, dalla stupenda Gheisha di Rob Marshall, si trasforma goffamente in adolescente complicata ed enigmatica; infine Clifton Collins Jr., già visto in Babel, con un ruolo piuttosto marginale nelle indagini e nel film. La trama è sfilacciata, alcune connessioni sono inefficaci e sfuggono anche allo spettatore più attento con l'inevitabile risultato di essere poco avvincente, al limite del ridicolo, a partire dall’abusato tema del citazionismo biblico e dell’Apocalisse. Il vero cattivo del film è la trascuratezza, sostiene il produttore Brad Fuller, (...) come tutti sappiamo, la trascuratezza può dar vita a profondi sentimenti di dolore, colpa e anche vendetta. Gli omicidi seriali dei Quattro Cavalieri sono una manifestazione diretta di queste sensazioni. Nonostante il tentativo dei realizzatori di reinterpretare i riferimenti biblici in maniera più personale e attuale, cercando un sostegno anche nel forte legame con scenografia e fotografia, permeate dai quattro colori, tale rivisitazione manca della suspence assolutamente necessaria per il genere, e l'unica "trascuratezza" che si evince è quella degli autori, per nulla capaci di intessere una sceneggiatura solida che rendano il prodotto anche minimamente convincente.


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