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Battle Royale

29/03/2009 11:00

Ivan Zulberti

Recensione Film,

Battle Royale

Il capolavoro del compianto Kinji Fukasaku: un film che ai tempi della sua uscita (2000) ha inevitabilmente suscitato un vespaio di polemiche, arrivando a scuot

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Il capolavoro del compianto Kinji Fukasaku: un film che ai tempi della sua uscita (2000) ha inevitabilmente suscitato un vespaio di polemiche, arrivando a scuotere addirittura i piani alti del governo giapponese. L’opinione pubblica si è divisa in due fazioni, perfino il Primo Ministro in persona si è scagliato contro la distribuzione dell’opera; il film è stato così ritirato dalle sale, censurato, vietato ai minori… e poi nuovamente distribuito, rispondendo alla travagliata gestazione con gli ottimi incassi al botteghino. Tratta da un fumetto manga, Battle Royale è un’opera non adatta a tutti, potrebbe perfino risultare indigesta agli spettatori più impressionabili. Estremo, disturbante, delirante, visionario. Vi sono echi dell’Arancia Meccanica di Kubrick, reminescenze pasoliniane, nonché rimandi addirittura alla mitologia classica.


Il tasso di violenza presente nel film è indubbiamente elevato, e il regista certo non risparmia all’occhio del pubblico qualche eccesso visivo. Ma ciò che davvero ha turbato l’opinione pubblica e ha dato conseguentemente fama e notorietà alla pellicola non è legata alla violenza delle immagini. La cultura nipponica è ben abituata a certe scelte stilistiche e anche la componente splatter è abbastanza radicata in un certo filone di film di genere. Quello che davvero sconvolge è altro.


Il ritratto che il regista traccia della società nipponica è a dir poco agghiacciante. Una società sconvolta, travolta dall’arrivismo più spietato, dai ritmi infernali della modernità, dalla totale perdita di valori etici, sacrificati sull’altare del più bieco capitalismo. Fino ad arrivare ad una drastica soluzione: il cosiddetto Battle Royale Act. Il folle gioco al massacro prevede che una quarantina di giovani studenti trascorrano tre giorni su un’isola deserta con un unico scopo: uccidersi, uccidersi l’un l’altro. I toni si fanno grotteschi, scanditi da un’ironia tremendamente amara e beffarda, che non risparmia niente e nessuno. I giovani protagonisti si trovano infatti catapultati in un incubo, una realtà ferocemente incomprensibile, in cui l’essere umano è costretto a regredire al binomio preistorico preda/cacciatore. Studenti modello che uccidono a sangue freddo, studentesse che si ammazzano a colpi di mitra per qualche futile motivo di gelosia, killer professionisti che partecipano solo per dare libero sfogo ai propri istinti peggiori. Tutto è estremizzato, ogni comportamento è volutamente portato all’eccesso, e anche le scelte stilistiche rispecchiano questa presa di coscienza. Una società allo sfacelo, che lotta per la sopravvivenza, dove chi è disposto a macchiarsi le mani è contrapposto a chi invece ancora conserva un briciolo di umanità. Il tutto sotto la direzione di un mefistofelico professore interpretato dall’immenso Takeshi Kitano: ennesima interpretazione che lascia il segno, da parte di uno dei più geniali autori degli ultimi vent’anni. Le ferree regole che il professore impone, e alle quali i suoi ragazzi devono attenersi, fanno di questa girandola sociale un grottesco gioco sanguinario. Ci si difende come si può: chi con il coperchio di una pentola, chi con un fucile mitragliatore, chi con una katana.


Un’opera coraggiosa, certo non un divertissement da slasher movie; non si può parlare neppure di film horror in senso stretto. Si tratta di una pellicola che sfugge alla circoscrizione dei generi cinematografici standardizzati, che vuole far riflettere, che decide di portare all’estremo determinati caratteri della società contemporanea: un’allegoria che pone degli inquietanti legami fra la situazione assurda del film e l’attualità giapponese. Si denunciano tutta una serie di comportamenti, dallo smodato individualismo fino ad arrivare alla totale perdita della ragione, rimandando più o meno esplicitamente a programmi come Grande Fratello o gli svariati teen movies. La lezione kubrickiana è stata recepita perfettamente: in una società dove l’aberrazione e la degenerazione diventano una costante quotidiana, si sollevano profondi dubbi e acerrime riflessioni sui caratteri che definiscono la nostra stessa realtà contemporanea. Menzione d’onore per la colonna sonora, che attinge a piene mani dalla musica classica, e che sembra un ulteriore omaggio al maestro di A Clockwork Orange.


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