Taddeo (Pierpaolo Zizzi, dietro i cui panni si cela lo stesso Avati da giovane) è un ragazzo di 18 anni che vive la sua adolescenza nella Bologna degli anni ’50. Come tutti i ragazzi “Coso”, Taddeo, è pieno di sogni e di ambizioni, tra cui quella di lavorare nel cinema: ma il suo desiderio più grande, è quello di entrare a far parte del gruppo che frequenta il mitico Bar Margherita, proprio sotto la finestra di casa sua. Grazie ad uno stratagemma molto ben congegnato il protagonista riesce a diventare l’autista di Al (Diego Abatantuono), numero uno indiscusso del Bar, e ad assistere da una posizione privilegiata alle rocambolesche avventure di vita dell’ingenuo Bep (Neri Marcorè), dello spericolato Manuelo (Luigi Lo Cascio), del sognatore Gian (Fabio De Luigi), dell’affascinante Marcella (Laura Chiatti) e degli altri assidui frequentatori di quel paradiso terrestre, quali Zanchi e Sarti (Batosso e Ippoliti). Scritto e diretto da Pupi Avati, Gli amici del Bar Margherita è un ritorno, dopo il brusco sprofondamento nel dramma de Il papà di Giovanna, all’ironia e alla comicità che da sempre accompagnano le pellicole del regista bolognese. I 90’ di film sono basati su evidenti note autobiografiche dell’autore che “non riguardano solo me – dice Avati – ma un momento del Paese in cui le adolescenze erano spensierate e sperperate con disinvoltura”. Ad incarnare perfettamente questa dicotomia tra passato e presente – che sfocia abilmente in un tema assai più delicato quale quello dell’“eterno ritorno” –, è il cast scelto dallo stesso regista di via Saragozza, che consiste, appunto, in “attori di famiglia”, quali Abatantuono, Marcorè, Cavina e Katia Ricciarelli, e attori che con Avati segnano il proprio debutto professionale come Lo Cascio, De Luigi e Laura Chiatti. Lo sfondo delle disavventure degli antieroi del Bar Margherita è reso vividamente dallo sceneggiatore Giuliano Pannut, che ricrea, in modo molto minuzioso, i portici bolognesi degli anni ’50, palco dell’intera storia. Altri due punti chiave della pellicola sono l’evocativa fotografia di Pasquale Rachini e la colonna sonora realizzata da Lucio Dalla, che fa da lento accompagnamento a tutta la storia, per poi schiantarsi di botto negli ultimi minuti come fosse un brusco risveglio o l’inizio di un nuovo sogno. La chiave interpretativa del film si ritrova nelle parole “nel suo piccolo”, che Al ripete in ogni discorso, e con le quali Avati sott’intende un macroscopico elemento cardine del proprio film, come del resto nella maggior parte delle sue realizzazioni, ovvero la semplicità. Quasi avvolta da una moderna poetica del fanciullino, la trama è basata su cose intuitive, normali – come le amicizie da bar – che il regista bolognese eleva a tratti fondanti di un uomo (termine non scelto a caso ma frutto di imperanti presunzioni maschiliste dei personaggi) e di un’intera società.