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Sbirri

05/04/2009 11:00

Stefano Camaioni

Recensione Film,

Sbirri

Matteo Gatti (Raoul Bova) è un giornalista televisivo, ideatore e protagonista di eccellenti documentari di inchiesta sulle più scottanti tematiche sociali...

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Matteo Gatti (Raoul Bova) è un giornalista televisivo, ideatore e protagonista di eccellenti documentari di inchiesta sulle più scottanti tematiche sociali. In seguito alla morte del figlio sedicenne, causata da una dose eccessiva di lsd, il reporter decide di lavorare ad un documentario sullo spaccio milanese, chiedendo aiuto e collaborazione alla polizia antidroga e cercando, allo stesso tempo, di scoprire come suo figlio abbia potuto cadere in una trappola malsana come quella della droga. Scoprirà aspetti del mondo urbano e particolari sulla morte del figlio che daranno una drastica svolta alla sua vita.


Partendo da una valida idea di fondo, il film è stato realizzato senza una sceneggiatura vera e propria: attraverso la preziosa collaborazione con la Polizia Italiana, viene mostrato il mondo dello spaccio della droga dai differenti punti di vista di chi vende e di chi la combatte. In un autentico contesto documentaristico, il regista Roberto Burchielli ha scelto di inserire una finzione drammatica all’interno della cruda realtà dei fatti. Peccato però che non sia assolutamente riuscito nell’intento, ritraendo, paradossalmente, una versione eccessivamente banalizzata e semplicistica dell’universo degli stupefacenti, e riducendo un fenomeno così complesso e popolare ad un convenzionale raccoglitore di stereotipi. Il punto debole del film/documentario è proprio la distorta e perbenista versione dei fatti che intende raccontare, attraverso gli occhi del protagonista del racconto, il dramma di un padre e una madre privati del proprio figlio, e del loro reciproco distacco e allontanamento. Ma il vero prurito sta proprio nei pianti e nei discorsi critici di Matteo, quando prendono piede con frasi di una banalità sconcertante (“i ragazzi si drogano per dimenticare” o “questi sono i giovani d’oggi”). La regia risulta eccessivamente mossa, rivendicando ancor più l’appartenenza del regista ad una carriera professionale esclusivamente documentaristica: un aspetto che si riversa, nelle operazioni di polizia (reali e girate dallo stesso Bova) come in tutto lo svolgersi della narrazione.


A dare il colpo di grazia al film, interamente girato in digitale, sono le musiche, eccessivamente struggenti, dimostrando a gran voce come Sbirri sia un prodotto più vicino alla televisione che al mondo del cinema; una produzione infatti affidata a Mediaset decisa, all'ultimo momento di volgere il prodotto al grande schermo.


Spiace sempre denigrare una produzione nostrana. Purtroppo però, il prodotto non lascia ampi margini di discussione, data la sua natura prettamente televisiva. Dispiace ancor di più notare come in Italia la linea di confine tra grande e piccolo schermo si faccia sempre più sottile, educando il pubblico alla visione di prodotti incapaci di introdurre vere e proprie considerazioni analitiche sulla realtà dei fatti. Sbirri cerca di raccontare un vero problema, quello della droga, senza però riuscirne a scandagliare gli aspetti antropologici più profondi, riducendosi ad essere una visione unilaterale delle cose.


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