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27 volte in bianco

14/04/2009 10:00

Giacomo Ferigioni

Recensione Film,

27 volte in bianco

Meglio mettere subito le mani avanti: l'equivoco titolo italiano, che potrebbe far pensare a 110 minuti di disavventure sessuali dei protagonisti, è ambiguo que

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Meglio mettere subito le mani avanti: l'equivoco titolo italiano, che potrebbe far pensare a 110 minuti di disavventure sessuali dei protagonisti, è ambiguo quel tanto che basta per attirare in sala più gente possibile. La titolazione originale (27 Dresses), sicuramente più pertinente, fa riferimento al numero di abiti da damigella della giovane protagonista (Katherine Heigl), ragazza dall'altruismo morboso e dall'ossessione per i matrimoni, per la loro organizzazione e per tutto il corollario di sentimenti ed emozioni che a parer suo veicolano. La sua vita sarà scovolta nel momento in cui dovrà organizzare il matrimonio della sorella (Malin Åkerman) con il suo capoufficio (Edward Burns) del quale è segretamente innamorata; mentre a complicare ulteriormente le cose sarà il rapporto con un cronista rosa (James Marsden), deciso a fare un articolo su di lei nel suo vendutissimo (sic!) giornale.


Dalla ricerca di brillantezza e ironia, 27 volte in bianco sembra piuttosto abbandonarsi con faciloneria al filone americano della commedia sentimentale: umorismo corrosivo, satira pungente – e più o meno veemente – dei costumi più radicati della società. Quello che avrebbe dovuto essere il punto di forza del film si palesa appena in qualche battuta di spirito sui matrimoni. Uno dei punti cardine della promozione del film è la presenza di Aline Brosh McKenna, promettente sceneggiatrice rivelatasi al mondo soprattutto grazie a Il diavolo veste Prada. Il suo nuovo lavoro però, anziché confermarne le potenzialità intraviste, rischia di far riconsiderare la sua opera precedente: il successo di quel film derivava veramente – oltre che dagli attori – dalla sceneggiatura? Oppure i meriti dovevano essere spartiti in maniera meno egualitaria?


Naturalmente, poi, procedendo a oltranza con questi ragionamenti si arrischia di finire in una sterile dietrologia: limitiamoci ad osservare che, senza grandi attori che esaltino anche ogni virgola di sceneggiatura (la recitazione qua è scolastica, nel migliore dei casi), quello che ci rimane è un film privo di personalità, di quelli che nemmeno riesci a odiare con forza, proprio a causa (o in virtù?) di ciò. Tutte le buone intenzioni rimangono, per l'appunto, intenzioni, che si abbandonano presto per virare su personaggi scialbi, dinamiche incomprensibili, e vaghi, vaghissimi echi di Hawks e Minnelli.


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