Marlene Dietrich e Ernst Lubitsch, nel loro percorso artistico, si incontrarono solo una volta per lavorare insieme: nel 1937, per la realizzazione di Angelo: un piccolo gioiello del cinema americano. Le loro storie hanno origini molto simili: entrambi tedeschi, hanno esordito nel teatro e poi la dura gavetta li ha portati al colpo di fortuna per spiccare il volo nel mondo cinematografico. Entrambi lasciarono il loro paese per l’America, per Hollywood, ma la Dietrich non dimenticò mai la Germania. Pur essendo diventata cittadina americana, lontana dalla patria, l’attrice si dimostrò attiva oppositrice del nazismo, sostenendo le truppe statunitensi in Africa e in Italia. Dopo aver trovato il successo, nel 1930, nel sodalizio con Josef von Sternberg e nella memorabile interpretazione di l’Angelo azzurro, l’attrice lavorò con numerosi registi. Su di lei l’appellativo “angelo” (come viene nominata da uno dei protagonisti del film di Lubitsch) appare quasi un ossimoro: lei, incarnazione della donna fatale. Negli anni ’30, la sua immagine divistica si stagliò contrapposta a quella di Greta Garbo; ma forse, per parlare dell’attrice tedesca, non basta la definizione di diva. Nel film di Lubitsch interpreta una donna dell’alta borghesia, annoiata e trascurata dal marito sempre in viaggio, della quale rimane sempre innamorata. Dalla noia al bisogno di essere amati e di avere le attenzioni da parte di un uomo premuroso e passionale, fino alla ricerca di queste qualità al di fuori del matrimonio: queste le tappe per giungere al classico triangolo amoroso. Tale trama si trova in centinaia di film, ma in questo la protagonista è interpretata da una donna non paragonabile ad altre attrici. La Dietrich sfugge al semplice canone estetico della bellezza, c’è qualcosa di conturbante e misterioso nei tratti spigolosi del suo viso asciutto, nel modo di abbassare gli occhi dallo sguardo obliquo, sotto le sopracciglia appena accennate. E il corpo sottile, dalle pose androgine, si muove con disinvoltura negli abiti e nei salotti di lady Barker. La sua bellezza e il suo mistero talvolta giungono quasi ad inquietare lo spettatore. Con questa diva davanti alla macchina da presa, il regista usa il suo proverbiale “tocco”, costruendo un raffinato ménage à trois, che nella seconda parte del film e nel finale si rivela un tormentato menage à deux. Infatti, all’inizio, Maria accetta di passare una serata con mr. Halton (Melvyn Douglas), gentiluomo appassionato, pronto a darle il suo cuore. Poco dopo, la ritroviamo addormentata nella stanza di una casa signorile in Inghilterra. È la casa di mr. Barker, suo marito (Herbert Marshall). Fin dalle prime battute fra i due, si intuisce l’abilità di Lubitsch e degli sceneggiatori, a tratteggiare il personaggio di brillante Frederick Barker, ironico e affascinante, da cui Maria è ancora attratta. Il gioco amoroso è tra i due: un gioco di riconquista e ricerca d’affetto. Purtroppo il povero mr. Halton, signore galante ma sdolcinato, non può reggere il confronto. In molti momenti del film, Lubitsch sceglie di raccontare gli incontri dei protagonisti in modo implicito, senza riprendere direttamente quello che accade, ma puntando la macchina da presa altrove come durante la cena, a casa Barker, dove il comportamento dei personaggi viene soltanto raccontato attraverso le parole dei domestici in cucina. Pur non trattandosi di uno dei film più celebri del regista tedesco, il film presenta alcune finezze registiche che lo contraddistinguono. Altamente consigliato per tutti gli appassionati di Marlene.