
Il percorso tortuoso dei giovani trentenni ha sempre avuto un generoso apporto e un sostegno morale dal cinema italiano. Le peripezie dei disoccupati, o degli occupati insoddisfatti, sono accolti da un pubblico che in quelle disavventure, nella sfortuna e nella cattiva sorte, si riflette. In un’attualità disarmante come la nostra, che naviga tra precariato e contratti a tempo determinato, tra rapporti sentimentali in crisi e ultimi baci, tra manuali d’amore demistificati e fughe dai gironi infernali dei call-center, la realtà e suoi paradossi – le dabbenaggini degli “italiani brava gente”, le intrinseche storture di una società a caccia di cinici paradigmi da primato – non possono che strappare almeno un sorriso. Venier ne è pienamente consapevole, ed è fin dai tempi di Tre uomini e una gamba che riesce a somministrare il “riso” come palliativo per affrontare le nostre infingarde insicurezze, i modi rinunciatari e pressappochisti, le ossessioni, i vizi e le piccole fissazioni ormai connaturate. Matteo si considera un luogo comune della sua generazione: laureato in matematica e brillante “cultore della materia”, dal curriculum eccellente, lavora nel reparto marketing di un’azienda in procinto di grossi cambiamenti, tra tagli del personale e business plan da rivoluzionare. Divide l’appartamento con Francesco, suo migliore amico col vezzo della Playstation, e appassionato di cinema, che si ostina ad usarne gli stereotipi e i cliché come termini di paragone per attutire la brusca realtà. Quando la rottura con la fidanzata, il licenziamento e lo sfratto incombenti fanno balenare in Matteo l’affronto di un ritorno a casa dai genitori, alcuni imprevedibili eventi giungono a stravolgergli la vita. Angelica, il nuovo vice responsabile marketing, e Beatrice, la nuova coinquilina, porranno la sua esistenza di fronte a un bivio: da una parte il fugace fascino della scalata aziendale e della carriera, dall’altra il gratificante, seppur precario, sentiero delle aspirazioni personali, dei sogni mai troppo evanescenti per svanire in un cassetto. Massimo Venier sa come muovere il suo occhio cinematografico, affiancando toni delicati ad una sensibilità sorniona. Conosce i ritmi della commedia, usa gli stereotipi del genere senza creare l’imbarazzo della ripetizione o la stanchezza della banalità; sfrutta gradevolmente i luoghi significanti della narrazione – campi di basket che divengono teatri di sfide memorabili, un buco nel pavimento come causa di reiterate peripezie, la cabina di proiezione di un cinema d’essai che funge da confessionale, mentre le scelte importanti di vita vengono affidate alla sorte di una partita videoludica – e li pone alla mercé dei suoi protagonisti. Alessandro Tiberi e Francesco Mandelli da una parte e Valentina Lodovini e Carolina Criscentini dall’altra, si fanno rappresentanti – ben scelti – di una generazione perennemente assalita da tempi avversi e scadenze cerberiche. Venier si affida a loro e ad una buona dose di sentimenti genuini, che, nell’instabile naviglio dei disagi giovanili, degli spartiacque esistenziali, e del rischio tentatore di infangare la nostra coscienza – anche quella – precaria, non guastano quasi mai.