Novembre 1966. Un uomo dai capelli radi, bianchi, occhiali da vista, vestito elegante e cappello, arriva in Bolivia. Alla frontiera si presenta come uomo d’affari uruguayano e viene fatto passare da una guardia troppo indaffarata. Lo stesso uomo lo ritroviamo solo, in una camera d’albergo, prima di togliere l’abito borghese e indossare la mimetica che lo porterà tra le montagne, alla guida di un manipolo di rivoluzionari. Quell’uomo si presenta come Ramon, con lui un gruppo di guerriglieri cubani, intento a esportare il successo della rivoluzione cubana anche in Bolivia. Ben presto è chiara a tutti la vera identità di Ramon, lo straniero. Ernesto Che Guevara, allora Ministro per l’Industria a Cuba e all’apice della sua carriera politica, decide di lasciare l’isola dei mojito nella convinzione di esportare l’esempio della rivoluzione cubana anche in altri paesi del Sud America oppressi dalla dittatura. Dopo l’insuccesso ottenuto in Congo, organizzato un piccolo gruppo di compagni cubani e nonostante il parere dubbioso del leader maximo, Fidel Castro, decide di partire alla volta della Bolivia. Sin dall’inizio della campagna molte sono le difficoltà che il Comandante si trova a dover affrontare: il partito comunista boliviano si divide e finisce col non dare alla rivoluzione il sostegno promesso, il gruppo di guerriglieri si trova presto isolato, senza cibo e rifornimenti, incapace di reclutare consensi e sostegno da parte dei contadini e della popolazione locale, che anzi finirà col sostenere l’esercito e la polizia boliviana. In poco meno di un anno il campo di addestramento verrà scoperto. L’8 ottobre 1967, vittima di un agguato, Guevara sarà catturato a La Higuera. I generali boliviani decideranno di giustiziarlo il giorno dopo, non senza un accurato servizio fotografico che contribuirà ulteriormente, negli anni a venire, a costruire quell’immagine di eroe rivoluzionario che lo ha consacrato al mondo intero. Dopo Che – L’Argentino, arriva sugli schermi il secondo lungometraggio incentrato sulla rivoluzione boliviana e che completa un disegno preciso e puntuale del Comandante, frutto di diversi anni di lavoro da parte di tutto lo staff di Soderbergh. Dopo aver intravisto l’evoluzione di Guevara, da medico e semplice sostenitore della rivoluzione a comandante carismatico e indiscusso, il quadro si completa mostrando ancora di più la vera anima dell’argentino, mossa da nessun tipo di rivalsa di potere ma solo dallo spirito idealista e libertario, che lo ha reso al contempo vittima ed eroe. In questa seconda parte scompaiono i flash-back e il flash-forward in bianco e nero e prevale l’uso del colore. Lo spettatore ha quasi l’impressione di trovarsi trascinato nel pieno della giungla, grazie anche ad una fotografia più cupa, dovuta all'utilizzo quasi esclusivo di illuminazione naturale e una regia veloce e rapida, realizzata con l’innovativa macchina digitale RED - già utilizzata nella prima parte - che, attraverso i suoi 4 chili e mezzo, garantisce la stessa resa del 35 mm e la qualità del digitale puro. Trattandosi di un biopic piuttosto preciso e scevro da alcun tipo di faziosità o interpretazione, l’intero film ha già in sé quel senso di sconfitta e morte che la Bolivia lascerà al Comandante. Dopo la gloria e i colori delle case coloniali di Cuba, qui vediamo pioggia, malattie, morti e l’incapacità del popolo e anche dello stesso esercito, di credere e affezionarsi fino in fondo a questa lotta. La rivoluzione e gli ideali lasciano presto il posto all’amara sconfitta, e si chiude con gli ultimi istanti di vita del comandante, esanime, a terra, forse inconsapevole della futura memoria che lo renderà sconfitto nel campo ma vincitore nell’immaginario collettivo. L’ultimo sguardo che Soderbergh vuole lasciarci è forse quello che permane in molti: il guerrigliero che, alla volta di Cuba, guarda con speranza e fiducia l’orizzonte di un futuro imponente e smisurato, allora ancora sconosciuto.