Dopo il successo mondiale di La dolce vita, Marcello Mastroianni si toglie le vesti dell’amante intimista e malinconico per indossare i panni tragi-comici di un conte siciliano cornuto e contento. Nel film di Pietro Germi, il personaggio si rivela fin da subito: è un quarantenne di nobile famiglia, annoiato della moglie (Daniela Rocca) troppo premurosa e innamorato della cugina (Stefania Sandrelli) sedicenne. Invaghito della ragazza da tempo, quando scopre di essere corrisposto, il film si trasforma in un ironico giallo dove l’assassino si autoracconta nello svolgimento del suo delitto. Dopo la prima mezzora, in cui il regista ci ha presentato ormai tutti i protagonisti della vicenda, la scena si svuota; gli altri personaggi sono solo figure di contorno, pedine del “gioco” che il conte Cefalù sta architettando, unico arbitro degli eventi. Le cose cominciano infatti a cambiare per il protagonista quando assiste al processo di Mariannina, una compaesana che, dopo aver scoperto il proprio uomo in pieno tradimento, lo uccide. La donna viene condannata ad otto anni ma subisce uno sconto della pena per delitto d’onore, cioè per aver agito di slancio a causa del tradimento. La mente di Fefé si illumina e capisce che quello è l’unico modo per poter sposare la cugina Angela: deve liberarsi della pedante consorte, senza che il buon nome della famiglia ne rimanga offeso. Ferdinando si chiude sempre più nelle recondite stanze solitarie di palazzo Cefalù, per architettare il delitto che deve passare come un delitto d’onore. Sentiamo la voce fuori campo dei suoi pensieri che immaginano già lo svolgimento del processo, le parole dell’avvocato più famoso della città, quello che fa commuovere la corte e il pubblico. Il grande pregio del film di Germi è di non aver raccontato solo una storia siciliana di matrimoni e tradimenti, ma di aver dato un efficace spaccato dell’epoca, che mostra le mentalità diffuse, i rapporti tra uomini e donne, e la condizione di segregazione femminile, lo svolgimento della giustizia, vecchi bigottismi e i tempi che stanno cambiando, con l’arrivo degli anni ’60. Lo stesso Ferdinando agisce con grande razionalità nel suo delitto, sfruttando proprio la mentalità retrograda dei compaesani, sprofondando nella vergogna e nel vilipendio pubblico, bollato come cornuto da tutto il paese. Ma nessuno sa che, nella fine del matrimonio di don Cefalù, nulla è successo senza che lui l’avesse previsto e scatenato, per diventare agli occhi dell’opinione pubblica il marito offeso che si vendica del tradimento della moglie. Accanto a Mastroianni e ad una giovane e sensuale Stefania Sandrelli, subentrerà Leopoldo Trieste, nei panni del pittore Carmelo Patané, pedina mancante per mettere in atto l’inganno di don Ferdinando. Divorzio all’italiana non solo è una delle pellicole più importanti della filmografia di Germi (e che gli valse l'Oscar per la sceneggiatura), ma ha anche portato alla notorietà Stefania Sandrelli. Tra i due comincia una ricchissima collaborazione: dopo la parentesi francese di Melville e il suo Lo sciacallo (1963), la Sandrelli tornerà in Italia per riaffidarsi alle mani del regista genovese in Sedotta e abbandonata (1964), uno dei capolavori della sua carriera di attrice.