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Antichrist

26/05/2009 11:00

Giacomo Ferigioni

Recensione Film,

Antichrist

Von Trier ricerca lo stupore e lo scandalo

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Ogniqualvolta si intraprende quella che potremmo definire "orbita Lars Von Trier", si assiste a una inevitabile polarizzazione – di pubblico e critica – che finisce per estremizzare ogni giudizio sul personaggio e sulla sua opera, singola e complessiva. Nonostante una poetica fin troppo eclatante (la redazione del Dogma ne è un esempio palese) e una presenza autoriale tangibile quando non ingombrante (si pensi agli interventi de-strutturali dell'entità registica, vale a dire di Von Trier stesso, in un film come Il grande capo), buona parte della sua opera si è dimostrata capace di sorprendere tramite procedimenti meta-filmici (il gesso di Dogville e Manderlay, il patibolo musicale attraversato dalla protagonista di Dancer in the Dark) e risultati non indifferenti.


Tenuto conto della caratura comunque indiscutibile del personaggio, ci si può spiegare l'alone di curiosità che circondava questo Antichrist, primo film girato dopo lo scioglimento del Dogma e un conseguente periodo di depressione profonda del regista danese (in mezzo il già citato Grande capo, gradevole opera minore, interessante soprattutto per l'uso della tecnica dell'automavision). Si voleva vedere se lo stile di Von Trier sarebbe rimasto quello "caratteristico" del decennio precedente; ma soprattutto c'era curiosità nei confronti di un'opera importante nel percorso di riabilitazione del suo stesso autore. La situazione non costituisce chiaramente un unicum nella storia del cinema: registi come Ingmar Bergman e Woody Allen ci hanno basato tutta una carriera, esorcizzando (o tentando di farlo) le loro paure, trasferendole e sublimandole sul grande schermo. In generale però non si può negare il fascino di un film in cui le ossessioni di una personalità spiccata vengono fatte rivivere attraverso uno sguardo registico, nel bene e nel male, "autoriale".


Antichrist racconta il dramma di una coppia sconvolta dalla morte dell'unico figlio, caduto dalla finestra in piena notte mentre i due consumavano un rapporto nella stanza a fianco. Lei (Charlotte Gainsbourg) cade in un profondo stato di depressione; lui (Willem Dafoe), consumato psicoterapeuta, la porta nella loro casa nel bosco Eden (nomen omen) per cercare di calarla in un contesto più rilassato. È da questo momento in poi che le cose finiscono per precipitare, fra eventi inspiegabili, tragedie e rivelazioni. Il bosco Eden, che si vorrebbe salvifico nei confronti dei destini dei protagonisti, non è che una sorta di calderone contenente le paure dell'autore: tutto al suo interno è dominato da caos, dolore, presagi, immerso nella più completa mancanza di senso o armonia. Il percorso intimo e drammatico dei due personaggi si estroflette verso il bosco stesso, trascinando lo stesso film verso derive orrorifiche sempre meno latenti.


Da un certo punto di vista non si può non apprezzare lo spirito che sta alla base del film, così come convince concettualmente la coerenza della rappresentazione; ben più discutibili sono gli elementi con i quali Von Trier decide di popolare (e significare) questo mondo. Se c'è una sottile linea di confine che separa l'orrore dallo scherno (che effettivamente ha accompagnato i momenti clou di Antichrist nella prima proiezione francese), Von Trier la supera di qualche chilometro: insetti succhiasangue, ghiande che cadono sui tetti la notte, cerbiatti, volpi parlanti. Ogni volta che ognuno di questi animali fa la sua comparsa sullo schermo, si allontana sempre di più la credibilità dell’intero film. Lo stesso dicasi per i due protagonisti; soprassedendo le evoluzioni sempre più posticce della trama, che tenta di spiegare (male) come le paure della protagonista siano attribuibili a precisi eventi storici, ciò che rimane sono personaggi la cui comprensione e interesse scemano di pari passo. Non si può negare, peraltro, che i due attori provino a dare spessore ai loro personaggi: Dafoe offre con generosità il suo corpo, talvolta i suoi sguardi languidi, ai primissimi piani che Von Trier gli dedica (spesso accompagnati da ralenti estetizzanti e atroci, sempre per quanto riguarda la credibilità); la Gainsbourg corre, urla, strepita e si divincola, si masturba fra gli alberi, si presta anche alla prima - e già chiacchieratissima, ça va sans dire - infibulazione della storia del cinema.


La regia di Lars Von Trier, in tutto ciò, fa vedere quanto ormai siano distanti i tempi del Dogma; prologo ed epilogo sono virati in verde, girati tutti al ralenti come nei più patinati spot televisivi. Le scene ambientate nel bosco, che rappresentano il resto del film, specie quelle marcatamente oniriche (soprattutto se slegate dal bislacco contesto), sono confezionate con una perfezione formale che difficilmente, qualche anno fa, ci saremmo aspettati dallo stesso regista di Le onde del destino. Von Trier ricerca lo stupore e lo scandalo, fra mutilazioni e sfoggio di genitali. Coerente nelle idee e intrigante nella messa in scena, ma completamente sballato e squilibrato a livello di contenuti. L'emblema perfettamente opposto di Antichrist sta in quella dedica finale ad Andrei Tarkovskij: che trasformava la natura in veicolo poetico, ma con giudizio.


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