Potenti e misteriose figure chiamate i guardiani intralciano la relazione tra l’aspirante politico David Norris e la promessa della danza Elise Sellas. The future is unwritten è il titolo di un documentario di Julian Temple incentrato sulla leggendaria band dei Clash. Se il resoconto critico de I guardiani del destino necessitasse di un titolo d’apertura, non esisterebbe citazione migliore di quella riconducibile alla cronistoria di Strummer e soci per introdurlo al lettore. George Nofi esordisce dietro la macchina da presa confezionando uno spionistico racconto di fantascienza, che piacevolmente flirta con il melodramma amoroso, cavalcando con successo l’onda sentimentale e intelligente che pare aver involontariamente influenzato e a posteriori legato gli episodi di genere della stagione cinematografica del 2010 (Inception, Non lasciarmi e Source Code). Soltanto parzialmente ispirato alla celebre short story che ne muove inizialmente le fila (Squadra riparazioni di Philip K. Dick), The Adjustment Bureau rappresenta l’affascinante parto di uno sceneggiatore prima che regista (firmati proprio da Nofi gli script dei vari Timeline, The Sentinel, Ocean’s Twelve e The Bourne Ultimatum), ovvero di un profondo conoscitore dei trucchi narrativi della settima arte, capace quindi di dosare la suspense nel migliore dei modi e in grado di miscelare, senza per questo risultare stucchevole, generi e citazioni più disparate. Con la sua impalcatura da dilatato episodio di Ai Confini della Realtà , I guardiani del destino si muove con scioltezza tra letterarie sensazioni mathesoniane di partenza e rimandi sparsi ma efficaci: servendo allo spettatore un allettante cocktail all’interno del quale sono più o meno facilmente riconoscibili i richiami a Minority Report, The Game e The Box. Al centro dell’intreccio, però, permane la strutturale importanza assegnata al senso di solitudine che circonda i due principali interpreti, prossimi, per condizione esistenziale, alle anime raccontate da Christopher Nolan e Duncan Jones; similari, per condanna decisa a priori da entità a loro superiori e apparentemente invincibili, ai destini arresi fin dalla nascita immortalati dall’ultimo Mark Romanek. Difficile, praticamente impossibile, non riuscire ad empatizzare con l’afflato disperatamente poetico che accompagna il susseguirsi delle sequenze: impresa quest’ultima, resa ancor più piacevole dallo stile registico di Nofi, che dirige con eleganza la macchina da presa alternando alla stasi riflessiva di classiche e lussureggianti posizioni l’elegante frenesia dell’azione. Mai una sbavatura, un’incertezza o il sospetto di un passo falso: in più un pizzico di sana speranza al calar del sipario. Applausi.