Non c'è una via moralmente giusta o sbagliata per elaborare un lutto. Non esiste sempre una maniera sensata, ragionevole, razionale, matura, responsabile. Ci si ritrova soltanto con sentimenti ed emozioni che terrorizzano perché affacciano su un abisso vuoto impossibile da colmare. Soli, con il proprio personalissimo e mai sperimentato modo di affrontare la morte. C'è chi digrigna rabbiosamente il cuore contro il fato, chi rifiuta l'impossibilità di una cura indolore e accoglie illusori palliativi a riempire i propri giorni di dolore, chi raccoglie i brani d'anima logori e li ricuce dignitosamente con cura silenziosa. Quasi sempre ci si aggrappa a qualcosa, un ricordo spolverato, una foto sbiadita, un oggetto da custodire che possa lenire l'assenza di coloro che si è amati, per continuare a sentirli respirare, nonostante tutto, accanto a noi. Julie Bertuccelli conosce quel “tempo al di là del tempo” che è il lutto, un'ampolla opaca fuori del quale tutto - giorni, persone, avvenimenti - continuano a scorrere. Ne conosce il linguaggio cinematografico grazie al maestro Kieslowski (per il quale fu assistente in Film Blu) e ne avverte la feritoia scavata dai tumulti autobiografici – la scomparsa del marito, il fotografo Christophe Pollock. Dopo l'esordio con Da quando Otar è partito (in cui un dramma domestico è affrontato con lirica levità), la regista francese pianta al centro di una famiglia colpita dall'improvvisa morte del padre, un enorme albero di ficus come appiglio al dolore, attraverso il quale la terzogenita Simone ascolta il genitore che continua a vivere nei rami mossi dalla brezza, nel fruscio delle foglie, nelle carovane di formiche e nella microscopica fauna che popola la rugosa pelle dell'albero. Bertuccelli porta in seno la dolente qualità di conoscere l'instabile quiete che precede la tempesta, le albe solitarie e l'immobilità crepuscolare che diventano rifugio forzato per chi affronta la desolazione dell'abbandono. Ma L'albero non è lo spartito di una marcia funebre, o il tema lamentoso per i cuori melanconici dei suoi protagonisti, né un ritratto del disfacimento o della natura transeunte dell'essere umano. Straordinariamente e sorprendentemente, la regista (e sceneggiatrice della favola Padre nostro che sei nell'albero di Judy Pascoe), trasferisce negli occhi di chi guarda l'eterea consapevolezza del vivere, solare come i raggi che penetrano delicatissimi e cangianti tra le fronde arboree. Nonostante il cordoglio, nonostante il profondo accoramento, la natura della campagna australiana, con la sua linfa vitale (le radici della pianta che si allungano sotterranee, le rane che invadono casa) e i suoi tellurici significanti, penetra la rassegnazione della famiglia in lutto. Ed è necessaria la convinzione di una bambina di otto anni - che si chiami illusione, stravaganza, o semplicemente speranza – per comprendere fino in fondo che la vita pervade tutto. E né il dolore, né la più profonda sofferenza individuale, potranno rallentare il suo naturale fluire. Forse è giusto, allora, accogliere e abbracciare questo inarrestabile rinnovamento.