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Conan il barbaro

16/08/2011 10:00

Valerio Ferri

Recensione Film,

Conan il barbaro

Un villaggio di barbari viene depredato e distrutto da una misteriosa tribù proveniente dal Nord...

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Un villaggio di barbari viene depredato e distrutto da una misteriosa tribù proveniente dal Nord. Restano in vita solo i bambini, venduti poi a mercanti di schiavi di passaggio senza scrupoli. Sottoposti a prove di fatica disumane sin dalla precoce età, soltanto uno di essi trova la forza per sopravvivere. La vendetta e il desiderio di rivalsa nei confronti di chi gli ha tolto tutto diventano la forza vitale per andare avanti e conquistare la libertà.


Ambientato in tempi e luoghi mitici non meglio precisati attorno alla fine di Atlantide, Conan è il perfetto connubio tra supereroi della tradizione artistica americana ed epos. Rispettando l’imprinting del suo creatore fumettistico negli anni ’30, si è cercato di dare sfogo al concetto più primordiale di avventura attraverso la dura legge del più forte; in un’epoca in cui la civiltà veniva considerata dai più uno strumento di vita innaturale e irrealizzabile. Le suggestive scenografie, la lentezza dei ritmi e i toni cupi sia nelle sonorità che nell’estetica, conferiscono un carattere di epicità che rende quasi singolare la pellicola nel suo genere. A tal proposito, nell’esiguità dei dialoghi si ritrova un po’ quello spirito ruvido e solitario che ha accompagnato il genere western più classico; naturalmente coi dovuti paragoni. Violenza e opacità sono come inevitabile due componenti evidenti, ma non si segnala un loro abuso, quanto più un importante contributo al forte senso di misticismo presente. Si strizza sovente l’occhio al peplum di lontana memoria, sebbene privo di teatralità e con un’enfasi discontinua, sia nel linguaggio che nelle arti figurative. Nel film che ha consacrato Arnold Schwarzenegger al grande pubblico nel ruolo del protagonista costruitogli su misura, emergono gli sguardi raggelanti di un superbo James Earl Jones nei panni del terribile stregone Thulsa Doom.


Quando il mito entra in gioco e certe atmosfere fantasy sono ricostruite con grande maestria, è sufficiente un benché vago abbozzo di sceneggiatura per comprendere le potenzialità di sequenze in grado di entrare nell’immaginario collettivo; senza la necessità di effetti speciali all’avanguardia, spesso prima causa di inutili appesantimenti e imperdonabili decontestualizzazioni. Nel mondo barbarico di Conan, semplicità e linearità non possono tra l’altro che regnare sovrane, e ciò rappresenta un ulteriore alibi per dare spazio ad un racconto scevro di troppi intrecci cervellotici, lasciando allo spettatore il puro gusto delle immagini. Le ingiustizie e le sofferenze patite dal protagonista nei primi atroci minuti sono anche il motore del film stesso, oltre a rappresentare il principale filo conduttore fino al termine. Un vero peccato che le velleitarie manie di grandezza hollywoodiane emergano in parte anche qua, e cerchino di caricare solennemente all’inverosimile ciò che doveva passare sottotraccia come un più discreto sussurro. Malgrado le licenziose (e limitate) esagerazioni del caso, la pellicola non pare comunque soffrire di particolari sbalzi che ne avrebbero incrinato il velato pathos esoterico. E se i muscoli di Conan possono perfino sopperire alle modeste doti recitative del suo interprete, non rimane che godersi il risultato finale.


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