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Una devastante pandemia che si espande per tutto il globo, una enorme facilità di contagio e un tasso di mortalità elevatissimo: questa è la premessa che sta alla base del “what if?” su cui Steven Soderbergh costruisce pezzo per pezzo il suo nuovo film, Contagion. Lasciando da parte le sue influenze più indie, Soderbergh realizza, su un soggetto scritto da Scott Burns, un thriller lucido e geometrico, realizzato con una splendida fotografia e una meticolosa cura dei dettagli, amplificata dalla conturbante colonna sonora di Cliff Martinez. Di ritorno negli USA da un viaggio di lavoro a Hong Kong, Beth Emhoff (Gwyneth Paltrow) si sente male. Ha tutti i sintomi di una normale influenza finché ha un collasso che la porta, nonostante le cure dei medici, alla morte. Dal particolare all’universale: il morbo, ancora sconosciuto, si propaga rapidamente in gran parte del mondo, mietendo ovunque vittime con una velocità e un tasso di mortalità in crescita esponenziale. La risposta della Scienza è affidata a Ellis Cheever (Laurence Fishburne), vice-direttore del CDC (Centers for Disease Control and prevention) e al suo gruppo di esperte: le dottoresse Hextall (Jennifer Ehle), a capo dei ricercatori, Erin Mears (Kate Winslet) come inviata sul campo e Leonora Orantes (Marion Cotillard), alla ricerca del paziente zero e dei primi passi della galoppante epidemia. L’occhio di Soderbergh si sofferma, grazie a un abile montaggio, sulla spaventosa quantità di piccoli, innocui, gesti quotidiani che propagano il dilagarsi dell’infezione: mani che si toccano, bocche, bicchieri; mezzi di trasporto come aerei, autobus e metropolitane che diventano implacabili corrieri anche per la malattia. Di pari passo con il progredire della pandemia, il panico prende possesso della popolazione, fomentato dalle notizie più disparate, spesso senza adeguate fonti, circolanti sul web: a veicolare la paura su Internet è il blogger Alan Krumwiede (Jude Law), in perenne bilico tra verità e finzione, tra sensazionalismo, farsa e vera informazione. Lui insinua il tarlo, il panico fa il resto: e poco importa se ciò che dice sia vero solo in parte (un farmaco che sembra funzionare in alcuni casi non è necessariamente la cura), totalmente false (non c’è bisogno di vaccinarsi, come non c’era bisogno nelle precedenti epidemie), o assolutamente vere (quanto è davvero estesa l’epidemia? Il business alle spalle della tragedia, quale casa farmaceutica lucrerà sul disastro? E chi beneficerà del vaccino prima degli altri?). Dall’universale al particolare: il dramma della popolazione è quello di Mitch Emhoff (Matt Damon), il marito di Beth, rimasto ormai solo con la figlia che deve proteggere non solo dal virus, ma anche da un mondo completamente impazzito, senza più regole, dove regna la paura, vige la legge del più forte e l’unica ancora di salvezza è quella di violentare la propria stessa natura di animale sociale per eccellenza, chiudendosi nel proprio piccolo rifugio e lasciando fuori tutto il resto (non è un caso che il ritorno alla normalità sia esaltato da un piccolo party, finalmente per due, a casa di Mitch). Il cast stellare a disposizione di Soderbergh si divide equamente la scena in un film dove è assente un vero protagonista (anche se, dal punto di vista emotivo, è il personaggio di Damon il vero catalizzatore) e il principale attore sul palcoscenico è il virus stesso. Il regista statunitense espone la chiara e analitica sequenza dei fatti, svolgendola in modo rigoroso e scientifico (gli eventi sono divisi in “giorni” a partire dal Giorno 2, dato che il Giorno 1 verrà ricostruito a ritroso, seguendo il medesimo percorso intrapreso dagli scienziati) riservandosi qualche attacco al mondo della Scienza (il panico inutile per il virus H1n1) e dei media, soprattutto indipendenti, distrutti da Fishburne con una lapidaria battuta. E sembra interessarsi particolarmente alla risposta dei civili, tra reazioni violente e animalesche e bisogno di proteggere gli affetti più cari. Un film di altissima caratura ed esteticamente perfetto, che ha però il difetto di non trasmettere fino in fondo tutta la gamma di forti emozioni che ci si potrebbero aspettare da una pellicola che tratta un simile argomento: forse proprio il rigoroso percorso scientifico del film e la notevole frammentazione dovuta al corposo gruppo di attori principali (ad esempio, sarebbe stato davvero interessante approfondire il percorso battuto dal personaggio della Cottillard in Estremo Oriente) limita un po' il coinvolgimento e il comunque inevitabile turbamento dello spettatore.