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La pelle che abito

05/10/2011 11:00

Ingrid Malossi

Recensione Film,

La pelle che abito

“Il volto è la vera identità dell’uomo” dice il chirurgo estetico Robert Ledgard, alias Antonio Banderas, tornato, dopo ventuno anni, dal regista che lo ha lanc

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“Il volto è la vera identità dell’uomo” dice il chirurgo estetico Robert Ledgard, alias Antonio Banderas, tornato, dopo ventuno anni, dal regista che lo ha lanciato sul grande schermo: Pedro Almodóvar. Anche in questa pellicola il cineasta spagnolo regala una summa e un conseguente riapprofondimento delle tematiche a lui più care: follia, vendetta, passione, identità sessuale, impreziosite da un gelido minimalismo fatto di perfezione formale, citazioni e dettagli performativi volti a regalare un film di alto impatto visivo ed eleganza, non altrettanto compensati da una scrittura fluida e talvolta kitsch, che funge però da mitigatore a una trama sovrabbondante di simbolismi.


Il film si apre su una ragazza, Vera (Elena Anaya, che ha oltretutto il merito di non far rimpiangere l’assente Penelope Cruz), con un’attillatissima tutina che fa yoga, che crea sculture ispirate a quelle di Louise Bourgeois, sculture con entrambi i sessi, con teste di tela di sacco e tante bambole. La ragazza è rinchiusa in una stanza da muri e pavimenti grigi, spiata continuamente da telecamere di sorveglianza che controllano ogni suo movimento. Dall’altra parte, ad osservarla, c’è Robert, che ha perso la moglie in un incidente stradale che l’ha completamente carbonizzata. Da quel momento in poi il suo unico obiettivo è ricostruire chirurgicamente una pelle sensibile alle carezze come alle aggressioni. Nel frattempo ha messo anche in atto la vendetta nei confronti del ragazzo che pensa abbia stuprato la figlia.


Marilia (Marisa Paredes), governante che scopriremo essere la madre biologica dello stesso chirurgo, tiene sotto controllo Vera fino a quando, durante il carnevale, irrompe nell’abitazione Zeca (Roberto Álamo), un personaggio vestito da tigre che ha uno strano rapporto con quella villa/prigione. Da lì partono una serie di flashback e ricordi che creano un turbinio di immagini, di quadri fotografici (superba la fotografia di José Luis Alcaine) capaci di intessere una lunga tela sull’eterna dialettica tra anima e corpo, tra essere e divenire, tra passato e futuro. Questi però hanno il demerito di essere fin troppo esplicativi nel loro incedere, creando nello spettatore una sorta di desuggestione visiva e di sovrabbondanza narrativa, non utile ai fini della giusta comprensione delle relazioni tra i personaggi, qui troppo inviolabili.


“Ogni giorno devi disfarti del tuo passato”- diceva Louis Bourgeois - “oppure accettarlo. E se non riesci, diventi scultrice”. È nella scultura che il passato può persistere, farsi corpo dell’artista e trasformare l’artista stessa in scultura. I corpi che Almodóvar ci presenta, come quelli della scultrice, sono metaforici, appena accennati nelle loro forme antropomorfiche, come quelli dell’infanzia, nuovi e lisci, sgombri da malizie, addirittura manichini inermi. Il corpo perfetto di Vera - nudo, disteso sul letto, appena toccato da un bianco e puro lenzuolo - ad inizio pellicola, viene osservato da Robert all’interno di uno schermo come se fosse un opera d’arte. Come se fosse uno di quei quadri tizianeschi che animano e illuminano i corridoi che portano nelle loro stanze, nelle loro umane solitudini, in un perfetto raddoppiamento voyeuristico simmetrico tra schermi e quadri, di vago sapore fassbinderiano (vedi Le lacrime amare di Petra Von Kant). La ricerca della perfezione, di un antidoto alla morte, alla miseria umana va inserita dentro delle apposite cornici di senso, quelle che abitano la pellicola e rivestono i quadri, ma anche quelle da cui i personaggi ci parlano e guardano angosciati, quelle mura che avvolgono e stritolano Vera e che lei abbellisce incidendoci sopra la propria rabbia, per un corpo non suo, per essere diventata l’oggetto estetico, il punto di vista discordante e dissonante di un’identità non sua, che non ha scelto di abitare. Vera abita solo la mente, la sua identità profonda, che è alimentata dal disconoscimento dell’esterno e che appaga sul finale, nel desiderio inconscio maschile di comunicare alla madre il proprio amore in una versione non maschile.


Il regista spagnolo si lascia ispirare dalle pagine di Tarantula, il romanzo di Thierry Jonquet, per dare forma a un Dottor Frankestein ai tempi della chirurgia estetica; un buon film, certamente, ma non il migliore di Almòdovar, qui molto incupito e inquieto, con un occhio al cinema di genere e l’altro a contenere gli eccessi. Monostante ciò, riesce a realizzare un film teso e complesso, che trova nell’apparente freddezza una sua identità e compattezza di fondo.


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