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L'amore che resta

14/10/2011 10:00

Ingrid Malossi

Recensione Film,

L'amore che resta

“Abbiamo così poco tempo per dire tutto quello che vorremmo”...

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“Abbiamo così poco tempo per dire tutto quello che vorremmo”. E in effetti Enoch Brae (l’esordiente Henry Hopper, figlio del compianto Dennis) corre contro il tempo, lo urta, lo sfida, ci gioca a battaglia navale, lo tratteggia col gesso sull’asfalto. Enoch è giovane, dovrebbe andare a scuola, dovrebbe ridere e scherzare con gli amici, mordere la vita, amare incessantemente. E invece rincorre il suo opposto: si muove da un funerale all’altro creando un simulacro dell’unico al quale non ha potuto partecipare, perché in coma. Tre sono i minuti in cui il suo cuore ha cessato di battere, il respiro si è sospeso, tutto intorno si è fatto nero. In quei tre minuti infiniti, ha assaporato la morte, e non ha visto niente: solo vuoto e leggerezza. Lì è apparso per la prima volta Hiroshi (Ryo Case), un fantasma di un pilota kamikaze giapponese morto in battaglia, che è diventato il suo migliore amico, il suo confidente, l’unico che lo trattiene alla vita.


A uno di questi funerali che Enoch frequenta, incontra Annabel Cotton (una dolce e delicata Mia Wasikowska), ragazza sveglia, piena di vita e sempre sorridente, nonostante il grande male che la attanaglia: le rimangono solo tre mesi di vita. A poco a poco Annabel e Enoch s’innamorano, perdendosi nell’immensità dei loro silenzi che gridano dolore, nei loro sguardi profondi come la giovinezza delle loro pelli diafane. Si amano e si rincorrono come uccelli che cantano al mattino inni d’amore e di ringraziamento per la vita, si amano perché sono l’uno lo specchio dell’altra: Enoch vorrebbe morire e Annabel vorrebbe solamente vivere. Si amano perché non c’è altro di meglio da fare. La loro è una sfida contro un tempo che vorrebbero fossilizzare (come gli insetti che tanto ama la darwiniana Annabel e che disegna nel suo diario), ma che invece fugge rapido verso un esorabile compimento. Perciò non resta che ingannare il tempo, sclerotizzarlo, riempiendo ciò che è vuoto: dare un inizio ad una fine.


Gus Van Sant, regista americano indipendente, ambienta questa dolce e rarefatta storia in una splendida Portland autunnale, resa ancora più straordinaria dalla fotografia di Harris Savides (che con Gus ha lavorato per la cosiddetta “trilogia della morte”, ovvero Gerry, Elephant e Last Days, di cui questo ne è l’incredibile evoluzione e apologo), che ne evidenzia le nuance calde dai colori vibranti, che sfumano nelle tonalità della terra. Evitare i sentimentalismi lacrimosi era l’obiettivo principale, riuscito perfettamente grazie alla performance silenziosa e partecipe dei due bravi protagonisti che, lavorando molto sulla mimica facciale, sugli sguardi e sui toni ironici e leggeri, inscenano una danza delicata e crepuscolare sulla vita e sulla sua dannata antagonista. La morte qui viene svuotata di tutti i suoi significati nefasti e dolenti e appare come l’unico tramite necessario per capire la vita e tutte le sue incredibili contraddizioni: ogni fine è una rinascita, l’atto purificatorio che trattiene il tempo e riconduce a una degna esistenza. Per fare ciò è necessario pensare ad essa in termini diversi, simulandola, offrendole il fianco, addirittura rappresentandola nel salotto di casa o tracciando i contorni dei corpi sull’asfalto, inscrivendo la materia nello spazio, un segno di una vita vissuta. È una sfida, un tentativo di porre in scacco la morte, di trapassarla, che si pone in aperta antitesi con il "maledettismo" giovanilistico che il regista americano aveva percorso in altre pellicole, una su tutte, Belli e dannati, e che apre quindi a un nuovo sguardo, più leggero e disincantato, pur nell’impossibilità di un felice destino dei personaggi.


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