La prima bozza della sceneggiatura di The Blues Brothers, scritta da Dan Aykroyd, si estendeva per la bellezza di 324 pagine, recapitata dallo stesso Aykroyd al produttore Robert K. Weiss all'interno di una copertina dell'elenco telefonico, tanto era prolissa. Da quella stesura primordiale, che comprendeva, tra le diverse trovate (come le “magiche” qualità della bluesmobile), anche la storia dettagliata degli ingaggi di tutti i musicisti della banda, John Landis ne scalpellò lo script di una pietra miliare della commedia musicale e demenziale. Resistere alla tentazione di dare seguito a un fenomeno di costume senza limiti di spazio né di tempo, non era facile. Nonostante l'assenza di John Belushi, i quasi vent'anni di distanza e un'imponente e invalicabile aura mitologica, Landis (che intanto ha dato il meglio, ma anche il peggio, della sua carriera) e Aykroyd recuperano gli avanzi della sceneggiatura del 1980, convincendosi biecamente della necessità di una nuova missione musicale: non più divina questa volta, piuttosto empia e fuori tempo. A diciott'anni dal concerto del Palace Hotel, Elwood J. Blues (Dan Aykroyd), appena uscito di galera, apprende che suo fratello Jake non c'è più, e anche il loro padre spirituale Curtis è andato. Quest'ultimo però, a quanto rivela Suor Mary Stigmata (Katleen Freeman), ha lasciato un figlio non riconosciuto avuto da una relazione con una donna sposata, adesso cresciuto e divenuto un indefesso e integerrimo poliziotto. Per Elwood si prospetta la possibilità di costituire di nuovo una famiglia, e insieme all'orfano di dieci anni Buster (J. Evan Bonifant), e il nuovo partner Mack McTeer (John Goodman), si mette sulle tracce dei vecchi compagni musicisti, per poter, ancora una volta, rimettere insieme la banda dei fratelli Blues. Scaglino la prima pietra coloro che hanno amato quel capolavoro di irriverenza, soul, sregolatezza e smodatezza che aveva come protagonisti due fratelli galeotti in fuga da ogni possibile e immaginabile calamità umana. I fan del blues duet faranno fatica a digerire questo tentativo di Landis e Aykroyd di riportare sul grande schermo le vicissitudini musicali (e legali) del superstite fratello Blues con la band chiamata nuovamente a raccolta. Ma se oltre lo schermo, nei vent'anni trascorsi dalle prime apparizioni al Saturday Night Live, negli show e nei concerti planetari, la coppia di frontman in occhiali Rayban Wayfarer, cravatte strette, cappello e abiti neri, ha sempre raccolto il favore di una folla delirante e in visibilio per la loro verace energia virale, quest'ultima si scioglie, in Blues Brothers 2000, in antibiotica fiera del revival. Dalla sequenza iniziale (quando Elwood esce di prigione), al recupero di Matt “Guitar” Murphy (in cui Aretha sostituisce Respect a Think per bacchettare il marito), vengono riproposti gli stessi ma sgasati personaggi e la medesima trama. I nazisti vengono sostituiti dalla mafia russa, la caccia all'uomo è guidata sempre dalla polizia di Chicago; si riascoltano (non senza sussulti emotivi) Peter Gunn Theme e Can't Turn You Loose, i brani nuovi mantengono il loro posto di rilievo nel filo narrativo, ma solo alcuni rimangono impressi, come la spassosa 634-5789 cantata da Wilson Pickett o la finale Please, Please, Please che James Brown canta dopo i titoli di coda, unico e tardivo sprazzo autentico di stile. Ci sono volute, infine, ben tre new entry per occupare il posto accanto allo spaiato Aykroyd. Ma, come l'affranto Elwood all'uscita del carcere, anche noi aspettiamo qualcuno che non arriva mai. La cosa che si percepisce di più di tutta la pellicola è proprio questa: la maledetta mancanza di un grande talento del cinema comico, che ha lasciato il nostro ridicolo mondo troppo presto. Il film chiude con i protagonisti in fuga dalla polizia; o più probabilmente, anche loro all'inseguimento di un mito indelebile troppo lontano da raggiungere.