Tratto dall'omonimo romanzo di Cristina Comencini - qui anche nelle vesti di regista - e presentato in concorso alla 68° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Quando la notte si sforza inutilmente di raccontare l’improbabile storia d’amore tra due personaggi tormentati, sullo sfondo delle Dolomiti. A causa dei problemi respiratori del figlio, Marina (Claudia Pandolfi) parte per un eremo in montagna, nella speranza che l’aria pura delle Dolomiti possa aiutare il piccolo. In questa landa campestre e arcaica, Marina entra in contatto con Manfred (Filippo Timi), suo padrone di casa e guida di montagna taciturna, che sembra aver abbandonato la civiltà a favore di una natura incorrotta e fedele. Da quando ha perso la moglie, Manfred non è più abituato a dividere il proprio spazio vitale con altri esseri umani. Con l’arrivo di Marina e del piccolo Marco, tuttavia, l’uomo dovrà rivedere la sua routine, anche a causa dei continui lamenti del bambino, che gli impediscono di dormire pacificamente la notte. Gli stessi lamenti che mettono a dura prova la pazienza di Marina, costretta a combattere la malattia del figlio contro l’indifferenza di un marito rimasto in città . Le esistenze di questi due personaggi subiscono una svolta quando, una notte, Manfred sente le grida di Marina e il pianto di Marco, seguiti da un tonfo attutito e da un silenzio inquietante. Cristina Comencini, che torna alla regia dopo La bestia nel cuore, firma un film arido, privo di emozioni. Nel raccontare la storia d’amore tra due personaggi problematici e pieni di cicatrici emotive, la regista/scrittrice si limita a filmare due attori davanti ad una macchina da presa, senza creare quell’universo altro, circostante o interiore che sia. Il lavoro della Comencini avviene solo in superficie, facendo di Quando la notte una pellicola senza senso logico. La condensazione del racconto principale in un week-end intimo e – nelle intenzioni – pieno di pathos appare inverosimile e affrettato, lasciando lo spettatore perplesso davanti ad una passione già consumata ed estinta, senza che ne venga individuata l’origine. L’arco di evoluzione dei personaggi viene appiattito dalla Comencini in una linea retta che non presenta né approfondimenti psicologici, né veri cambiamenti che possano motivare la scelta di raccontare questa vicenda. Nei panni di Marina, Claudia Pandolfi è lamentosa, impostata, innaturale e con una smorfia snervante sempre dipinta sul volto, limitandosi a prestare il suo viso ad un personaggio col quale non si preoccupa di entrare in contatto. Al contrario, Filippo Timi, cerca in ogni modo di dare una parvenza di credibilità al suo personaggio, guidando Manfred lungo la strada di una improbabile rinascita grazie alle capacità comunicative del suo sguardo cupo. Il suo lavoro, tuttavia, non è sufficiente: l’indiscusso talento dell’attore, che riesce a brillare in una diegesi tanto mediocre, viene svilito da una regia che sembra indifferente ai protagonisti e che si fa forte solo di riprese ariose che seguono i contorni frastagliati delle Dolomiti.