Il cowboy è un'autista al soldo del miglior offerente: con lui al volante ogni fuga dopo una rapina è assicurata. Sulle sue tracce c'è il detective, poliziotto ossessionato dal pensiero di mettergli le manette ai polsi. Driver l'imprendibile vede la luce in piena “car-chase” mania, quando il cinema statunitense trabocca di pellicole con protagoniste quattro ruote e motori rombanti. Film come Vanishing Point, The Seven-Ups, Two Lane-Blacktop, IDirty Maru Crazy Larry e Gone in 60 Seconds sono già storia: un misto di poesia utopica, antieroismo solitario e rigurgito poliziesco che ha fatto la gioia dei cultori di b movie e non solo. Walter Hill (all'epoca al suo secondo film dopo lo stradaiolo-pugilistico Hard Times) entra di prepotenza tra le pieghe di un filone o presunto tale con la delicatezza di un elefante che si aggira in un negozio di cristalli. Vedere per credere il formidabile incipit: non un dialogo, nemmeno l'ombra di una battuta che sia mezza, 20 folgoranti minuti dove la definizione dell'ambiente cittadino, la scansione sulla scena dei personaggi portanti e il “cardiopalmico” inseguimento tra fuggiaschi e auto della polizia non può non ricordare i fatidici 9 minuti di Bullit, pietra miliare che il regista decide di omaggiare senza perdere tempo in fronzoli inutili. The Driver già consegna Hill alla storia del cinema, illustrando esaurientemente gli intenti di un autore in erba, intenzionato a dimostrare quanto la sua poetica si già pronta per diventare testo da analizzare. Contrariamente ad altre operazioni (I guerrieri della notte, I guerrieri della palude silenziosa, Strade di fuoco) Driver l'imprendibile non si pone un obiettivo verticale, un punto d'arrivo, una meta dal percorso vettoriale, bensì procede circolare, percorrendo all'infinito l'asfalto già segnato dai pneumatici stridenti: cacciatore e preda infatti, continuano a mordersi vicendevolmente la coda in cerchio, come anime arrese ad un destino indesiderato ma non per questo non rispettato e vissuto fino all'ultima goccia di sudore. Il western, già ridisegnato dieci anni prima nello spazio metropolitano da Don Siegel con L'uomo dalla cravatta di cuoio, permane come ispirazione riveduta e corretta (il protagonista porta il fittizio soprannome di “Cowboy” mentre gli interrogatori si svolgono in un bar, parente moderno del saloon), ma l'intento di Hill conduce la sua opera seconda addirittura oltre. Un gioco tra gatto e topo, dove la spersonalizzazione fumettistica delle psicologie attoriali non contempla nemmeno l'assegnazione di un nome, ma soltanto quella di un ruolo (nello specifico il pilota, il detective e la giocatrice. Il tutto decenni prima di Le Iene) circoscritto da compiti che non prevedono che il personaggio possa permettersi di uscire fuori parte. Il resto sono le prime, impazzite schegge di un videogioco mortale, dove oltre al rischio e al crescente livello di difficoltà, viene aggiunta la variante dell'inganno, certificata dall'accordo tra il detective e un criminale qualunque al fine di incastrare, a costo di giocare sporco, il Cowboy. Driver l'imprendibile rappresenta il fiore all'occhiello di uno spaccato di cinema irripetibile e irreplicabile; fa tenerezza riguardarlo ora (magari assieme a Strade Violente di Michael Mann) e pensare che c'è qualcuno capace anche solo di avvicinargli - Drive di quel furbacchione di Nicolas Winding Refn.