La rock star Ellen Aim viene rapita da Raven, spietato capo della gang motociclistica Bombers. In soccorso della donzella corre l'eroe senza macchia Tom Cody. Anno 1984: è tempo di realizzare i propri sogni. Ormai regista consolidato, Walter Hill riceve finalmente il budget utile per portare a compimento quella che nella sua testa più si avvicinava al concetto di pellicola definitiva: “una favola rock and roll” attraverso la quale ricercare il punto d'incontro tra musical giovanile, action movie, commedia anni '50 e sovrastruttura fumettistica, naturalmente senza dimenticare il consueto sottotesto western. Questa l'idea che muove le fila di Strade di fuoco, cocktail di generi al ritmo di videoclip comunque con i piedi ben piantati a terra, causa le origini tradizionali della sua base narrativa. Ad oggi è sicuramente il film più estroso di Hill, al tempo stesso l'operazione maggiormente circoscritta in un preciso immaginario decennale, cioè quello dei meravigliosi anni '80: quindi giochi di luce, costumi e psicologie stilizzate, musiche più orecchiabili che mai; inconfutabilmente la pellicola che meglio conduce, alle estreme conseguenze, l'atteggiamento videoludico innestato sul fumetto del quale I guerrieri della notte si era posto come apripista. A partire dai personaggi e dalla loro caratterizzazione, Strade di fuoco è già un altro testo, che utilizza lo schermo cinematografico esclusivamente per riflettersi. Michael Parè veste i panni pulp di Tom Cody, eroe buono a metà tra l'investigatore privato e il picchiatore da saloon, che corre in soccorso della bella e indifesa Diane Lane (ovvero la tipica ruolizzazione uomo-donna della favola classica), spalleggiato nell'impresa dal goffo Rick Moranis, macchietta di contorno, quasi un Robin tanto impacciato quanto utile e generoso. A completare il quadro “proppiano”, naturalmente, c'è l'antagonista: William Dafoe, alias Raven, capobanda dei Bombers dal chiodo nero, ciuffo gelatinoso a metà tra un “rebel without a cause” degli anni '50 e un componente della band Misfits, pallido e scavato in volto come il più temibili dei vampiri. Basterebbe questo per capire cos'è Strade di fuoco: una (rin)corsa verso l'eccesso stilistico, colorata e dal ritmo forsennato, geograficamente in linea con le esplorazioni urbane già teorizzate da Driver l'imprendibile e I guerrieri della notte ma rese qui ancor più fashion dalla costruzione metropolitana di una città senza nome: metà anni '50 e l'altra post apocalisse. I ruoli di preda e cacciatore s'invertono, con il cattivo ad attendere l'arrivo del buono, non prima che quest'ultimo abbia, come di consueto, superato i crescenti livelli di difficoltà tipici del videogame. Strade di fuoco fa ampiamente il suo dovere, ma apprezzarlo fino in fondo non può non prescindere da una questione di gusto: se all'eccesso si preferisce l'asciutta crudeltà riverberata dal reale, difficilmente lo si potrà gustare appieno. Certo è che a guardarlo il termine “fumettone” assume delle sfumature tutt'altro che dispregiative.