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Shame

10/01/2012 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Shame

Un essere umano che rimane prigioniero del suo stesso corpo

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Nel 2008 la sezione "Un Certain Regard" del Festival di Cannes si piegava al neofita regista Steve McQueen, consacrandolo con la Camèra D’or per il film d’esordio Hunger, pellicola nera in cui si raccontava la storia del detenuto Bobby Sand, prigioniero irlandese di Long Kash che, nel 1981 si lasciò morire di fame per protestare contro le condizioni disumane di prigionia. Ad interpretare il detenuto era l’allora poco conosciuto Michael Fassbender, che sedusse pubblico e critica con la sua prova istrionica. A distanza di tre anni, McQueen sceglie un’altra vetrina internazionale – la 68° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – per presentare la sua seconda prova registica in cui ritrova Fassbender, uno degli attori più promettenti della nuova generazione.


Brandon (Michael Fassbender) è un trentenne newyorkese con un buon lavoro e una bella casa. A prima vista, possiede tutto quello che si possa desiderare: è bello, sicuro di sé, arriso dal successo. Eppure Brandon è prigioniero di una forte ossessione sessuale che gli impedisce di avere una relazione normale con una donna. Il suo equilibrio, già precario, verrà messo a dura prova dall’arrivo improvviso della sorella Sissy (Carey Mulligan), ragazza fragile e problematica, che obbligherà Brandon a fare i conti con la propria coscienza.


«Tu mi soffochi,» urla Brandon alla sorella Sissy. «Mi metti in un angolo, e mi intrappoli». Su questo senso di trappola, di destino ineluttabile Steve McQueen costruisce la sua diegesi. Se in Hunger il regista inglese puntava la macchina da presa sul diritto inalienabile alla libertà individuale, in Shame rovescia il suo punto di vista, focalizzandosi su un essere umano che rimane prigioniero del suo stesso corpo, sottomettendosi a bisogni che gli impediscono di condurre una vita completa. Ed è proprio il corpo il centro nevralgico della narrazione: spigoloso e asciutto, Michael Fassbender mette al servizio di Brandon tutta la sua statuaria fisicità, mercificando il proprio corpo allo stesso modo in cui il suo personaggio abbandona la sua anima, in favore di pulsioni che, in nessun caso, potranno renderlo libero. La soddisfazione dei desideri sessuali non lascia mai nel protagonista un senso di libertà o serenità: il suo sorriso congelato in una smorfia, in una delle scene più evocative della pellicola, rimanda l’immagine spettrale di un uomo destinato alla distruzione, consapevole di non poter in alcun modo invertire la rotta discendente della sua esistenza. Steve McQueen, in questo film inquietante e travolgente, dimostra una padronanza eccellente del mezzo cinematografico, dirigendo i suoi attori in un universo caratterizzato da toni grigi e spenti, e avvolto da una fotografia che fa dei toni freddi il proprio marchio di fabbrica. Come avveniva, ad esempio, in Mystic River di Eastwood, le luci fredde che ammantano tutta la narrazione rimandano allo spettatore un senso di pessimismo universale, suggerendo che nessuna speranza giungerà ad allietare l’animo depresso dei protagonisti. In questo senso è emblematica la meravigliosa scena in cui Sissy canta l’intramontabile New York, New York, in un nuovo arrangiamento che ne smorza l’entusiasmo e la gioia. Il suo canto è, in realtà, una disperata richiesta d’aiuto che si riflette nella reazione sconsolata ma composta del fratello, seduto al tavolo, mentre lascia rotolare sulle guance lacrime amare.


Il regista racconta, senza bisogno di tante parole, il rapporto – a volte morboso – tra fratello e sorella, sul quale grava un passato oscuro. «Non siamo cattive persone. È solo che veniamo da un brutto posto» gracchia Sissy ad una segreteria telefonica che rimanda all’assenza del fratello. Assenza consapevole: quella di Brandon, infatti, è una fuga davanti alla propria ombra. Grazie all’arrivo della sorella Sissy – una Carey Mulligan mai così credibile e affascinante – Brandon prende coscienza del suo disturbo, sviluppando quel senso di vergogna che dà il titolo all’opera. Attraverso gli occhi della sorella, Brandon vede l’immagine di se stesso, distorta da una disfunzione che lo allontana dagli altri esseri umani, con i quali può solo relazionarsi in termini sessuali. Splendida la prova recitativa offerta da Fassbender, meritatamente premiato a Venezia con la Coppa Volpi, per il coraggio dimostrato nel mettere al servizio del regista le proprie capacità non solo artistiche ma soprattutto fisiche. Non a caso Shame esce sulla scia di altri prodotti cinematografici in cui i grandi personaggi passavano attraverso grandi interpretazioni fisiche. Si pensi alla Nina di Natalie Portman in Black Swan, o al pilota senza nome di Ryan Gosling in Drive: allo stesso modo, l'attore tedesco nasconde i suoi bei lineamenti dietro una reificazione del proprio corpo, regalando al pubblico l’ennesima prova del suo grande talento.


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