Sono sette gli atti misericordiosi di cui un buon cristiano si deve far carico per potersi definire tale: dar da mangiare agli affamati, bere agli assetati; vestire gli ignudi e alloggiare i pellegrini; visitare gli infermi e i carcerati e, infine, seppellire i morti. Sette opere di misericordia è il nome di un dipinto di Caravaggio, ma è anche il titolo dell’opera prima dei fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio, cineasti che già si erano espressi tramite cortometraggi e documentari. La storia è quella di Luminita (Olimpia Melinte), un’immigrata moldava che vive in una baraccopoli in un contesto familiare quanto mai violento. Per tentare di scappare dalla baraccopoli in cui viene sfruttata come ladruncola, Luminita idealizza un piano per realizzare il quale si avvicina ad Antonio (Roberto Herlitzka), un vecchio malato e solo. Come la maggior parte degli esordi, Sette Opere di Misericordia è un film che promette molto più di quanto in realtà possa mantenere. Lo spunto iniziale è valido: l’idea di traslitterare il dogma cristiano della misericordia in uno stratagemma per raccontare la situazione degli immigrati nel nostro paese, sulla carta appare vincente. Tuttavia, l’inesperienza dei registi, così palese nella maggior parte delle inquadrature, rende vane le garanzie offerte da un soggetto originale e accattivante. Il semplice fatto che i fratelli De Serio sentano il bisogno di scrivere con un font esageratamente grande l’opera di misericordia a cui ogni spezzone rimanda (e spesso non del tutto), rivela l’incapacità dei cineasti di trasformare le loro idee in immagini che, miscelate a situazioni e dialoghi, semplifichino la narrazione. Nella pellicola sembra che le immagini, da sole, non riescano a catturare l’attenzione dello spettatore che, per via di una regia comunque monocorde, rischia più volte di scivolare nell’apatia. Anche a causa di una sorta di distrazione che si vede sia nei tagli di montaggio – lungi dall’essere quell’elemento invisibile di cui scriveva André Bazin – sia in una scenografia che sembra divisa a metà tra due ambientazioni temporali. Se da una parte Luminita si addormenta ascoltando la musica da un ipod rubato, dall’altra l’autobus su cui viaggia la ragazza, o l’intero appartamento di Antonio (elettrodomestici inclusi), risultano quasi anacronistici. La sceneggiatura evidentemente mette tanta carne al fuoco, tanto che la storia di Luminita è avvolta dal mistero: l’unica cosa certa è il suo desiderio di sfuggire da una situazione di povertà che la costringe a rubare e a dormire in uno scomodo furgone. Ma nulla viene detto dell’addetto all’obitorio che promette di aiutarla, né del piano che insieme hanno escogitato. C’è un "loro" che aleggia sulla protagonista e che la spinge ad azioni prive di scrupoli, come rapire un neonato o aggredire un povero vecchio di ritorno dall’ospedale. Persino l'atto conclusivo della protagonista – in una delle scene più belle di un film altrimenti monocromatico – rimane oscuro allo spettatore che, per via dell'effetto di "impallamento" (dovuto a un passeggero del trasporto pubblico), perde di vista Luminita e Adrian (Cosmin Corniciuc). Soddisfa invece la prova istrionica offerta dall’esiguo cast. Una pellicola in cui gran parte della diegesi è affidata ad uno scambio non verbale, se da un lato spesso annoia lo spettatore, dall’altro permette di apprezzare le capacità di Roberto Herlitzka, già visto in Boris, nell’interpretare un vecchio malato che, nonostante i soprusi e le umiliazioni subite da Luminita, non esita ad aiutarla. La sua è una parte disperata, a volte indisponente per quel senso di rassegnazione e ineluttabilità che accompagna tutta la sua lenta discesa. Un'estenuante declivio verso la morte che, in effetti, promette senza arrivare mai. Esattamente come avviene per un climax drammaturgico che non riesce mai a smuovere l'apatia dello spettatore.