A metà strada tra i giovani delinquenti di Elephant di Gus Van Sant e l’ambiguo Tate della serie American Horror Story, Kevin (Ezra Miller) è un ragazzo problematico, che sin dall’infanzia mostra una certa predilezione per le azioni malvagie. Eva (una maestosa Tilda Swinton) non riesce a legare con questo figlio giunto un po’ per caso, per il quale ha dovuto rinunciare a qualsiasi tipo di aspirazione personale. Tra loro due, John C. Reilly interpreta la parte di un padre distratto che, nel tentativo di assecondare ogni desiderio del figlio maggiore, diverrà suo malgrado complice della strage nel liceo di Kevin. Homo homini lupus è la locuzione che Hobbes utilizza per descrivere la capacità umana di distruggere se stessa. La tesi del filosofo ben si adatta ad una storia inquietante e agghiacciante, capace di irretire la platea del festival di Cannes, in cui il sentimento materno si trasforma in un incubo persistente, una discesa nei gironi infernali. Negli anni 70 era stato Polanski ad offrire una nuova immagine della maternità , in Rosemary’s Baby: il miracolo della vita veniva trasformato dal regista polacco in un’esperienza ansiogena e spaventosa. L’idea che un figlio possa essere distrutto dalle mancanze della madre non è una novità , in campo cinematografico o psicanalitico. ... E ora parliamo di Kevin eredita questo concetto sviluppandolo da un nuovo punto di vista formale, che si focalizza su dettagli rarefatti, sfumature narrative e indizi lungo una diegesi che si dispiega su diversi piani cronologici. Salti temporali continui permettono allo spettatore di spiare il rapporto tra madre e figlio attraverso gli anni e, nel frattempo, di conoscere lo scenario post-apocalittico dell’esistenza di Eva, che deve sfidare la rabbia dei parenti delle vittime e il proprio senso di colpa. Il film di Lynne Ramsey è una pellicola in cui il rosso è la dominante cromatica, dal prologo immerso nelle tonalità accese della pittura fiamminga all'epilogo; un continuo rimando alla tragedia di cui Eva – in un modo o nell’altro – si è resa responsabile. E, allo stesso tempo, il colore diventa mezzo di anticipazione: il rosso del led sulla sveglia, apre le porte ai ricordi di Eva, e - allo stesso modo - il vermiglio che imbratta la sua casa è un’anticipazione palese della strage a cui dovrà arrendersi. In questo senso è emblematica la scena che apre il film, in cui una giovane Swinton viene portata in processione da una folla urlante: la macchina da presa riprende dall’alto il corpo disteso della donna ricreando la posta di Gesù Cristo in croce e richiamando lo stesso rapporto morboso tra madre e figlio raccontato da Pasolini in Mamma Roma. Senza mai sentire il bisogno di mostrare scene truculente o di facile pietismo, la regista riesce a creare un universo diegetico disturbante, che si pone – nei confronti di chi guarda – come un continuo pugno nello stomaco, un interminabile tour de force dentro il mistero della mente umana. «Voglio che mi spieghi il perché» urla Tilda Swinton a un semicatatonico Ezra Miller: ma alla sua domanda non c’è risposta, perché il male non sempre fornisce spiegazioni. Proprio in questa mancanza di giustificazioni si deve ricercare il vero pregio della pellicola: Ramsey non sente il bisogno di tirare una morale, né di separare l'innocenza dalla colpevolezza in un mondo dove tutti sono colpevoli e, allo stesso tempo, innocenti. La regia attenta ed elegante si sposa alla perfezione con una colonna sonora decontestualizzata, che utilizza note allegre e orecchiabili a commento di scene dolorose. L'ottima sceneggiatura, infine, rende ...E ora parliamo di Kevin un film di altissimo livello.