Non ci sono più dubbi: il cinema spagnolo, specializzandosi nella produzione di pellicole horror e thriller, ha iniziato la sua corsa per l’affermazione nel panorama cinematografico di genere. Un alone di inquietudine, un vento di terrore sembra aver iniziato a scuotere la penisola ispanica per fare luce sulle ombre di un’esistenza scandita dagli usi e dai costumi di una società cattolica e arcaica. Come Guillem Morales con Gli occhi di Giulia e Pedro Almodovar con La pelle che abito, Andrés Baiz svela gli intimi tormenti di un’umanità in crisi. Adrién, direttore dell’orchestra filarmonica di Bogità , è un uomo affascinante e seducente che si diverte a flirtare con le donne che lo circondano. Quando la sua fidanzata Belen lo scopre, si infuria e sparisce misteriosamente. Distrutto dal dolore, Adrién trova presto conforto tra le braccia della bella cameriera Fabiana che, notando il benessere economico dell’uomo, non tarda a trasferirsi in casa sua. La vecchia dimora, però, appare abitata da presenze misteriose che aggrediscono l’intrusa e che sembrano voler comunicare con lei. Gli elementi caratteristici del cinema ispanico di genere ci sono tutti: attori affermati, ambientazioni claustrofobiche e nessun mastodontico effetto speciale. Sebbene il regista sia di origine colombiana e la pellicola sia una co-produzione - Spagna/Colombia - sostenuta dalla 20th Century Fox, La verità nascosta è un prodotto che rimane fedele al suo spirito. I mostri della mente, spesso, sono più orrorifici di quelli realizzati con tecnologie all’avanguardia. Così, sfruttando le paure più intime dell’individuo, Baiz realizza un thriller da camera che, adottando l’idea di casa organica, inserisce lo spettatore in un ambiente arido e corrotto. L’unica location della pellicola è una vecchia casa di campagna in cui le porte scricchiolano, le tubature gorgogliano e gli spifferi spostano gli oggetti. Cosa c’è di più spaventoso di un luogo inizialmente ospitale che diventa, improvvisamente, minaccioso e infestato di fantasmi? Ovviamente nessuna presenza infastidisce un umano se non ha un valido motivo: ce lo aveva già insegnato Robert Wise nel lontano 1963 con Gli invasati. La storia non segue un ordine cronologico ma procede su un sistema binario, alternando presente e passato, realtà ed allucinazioni, persone e fantasmi. Inizialmente strutturata come un giallo classico che, disseminando indizi e depistaggi, attira e confonde lo spettatore, la pellicola diviene ben presto un thriller soffocante, su un filo narrativo contorto che rovescia la visione delle cose: chi è la vittima e chi il colpevole? La trovata sarebbe sicuramente stata interessante se non avesse costituito una vera e propria cesura all’interno del film. Il cambio di prospettiva (e di soggettiva) risulta inefficace, probabilmente per colpa della direzione artistica e della colonna sonora di Federico Jusid che non rimane impressa nella mente. L’inquietudine iniziale che faceva sperare in un film opprimente e stimolante è costretta a cedere al sospetto che la pellicola non si differenzierà dalla massa.