Il concerto era una favola sopita, smorzata, accennata. La sorgente dell’amore, invece, è una favola dichiarata, una realtà vissuta in un villaggio del Maghreb o della Penisola Arabica, una storia d’amore capitata ad ognuno di noi. Radu Mihaileanu decide di avvertire subito lo spettatore e di introdurlo in un ambiente talmente naturale e incontaminato da essere rimasto, quasi, fuori dal mondo. In un piccolo villaggio tra il Nord Africa e il Medio Oriente, le donne vanno a prendere l’acqua sulla cima di un’ispida montagna, sotto il sole ardente o durante un temporale. Dopo l’ennesimo aborto, Leila, la giovane e acculturata moglie di Sammy, propone alle altre donne di fare lo “sciopero dell’amore” per cercare di cambiare il sistema arcaico della loro società. Finché gli uomini non accetteranno di aiutare le loro donne, dunque, loro si rifiuteranno di fare sesso e rispettare i doveri coniugali. Sebbene l’idea alla base della sceneggiatura sia molto valida, il nuovo film di Mihaileanu non convince pienamente. La situazione socio-culturale delle protagoniste è solo accennata, delineata in maniera frettolosa, mostrata in modo troppo vago per essere capita fino in fondo. In un mondo senza acqua, senza corrente, senza tecnologia, incentrato sul rifiuto totale di qualsiasi moto di sviluppo, è inevitabile che prima o poi i gli abitanti si stanchino di giocare a “servi e padroni” senza possibilità di ribaltare i ruoli. Con un paesaggio roccioso e sabbioso, arido e spoglio, serve una ventata di aria fresca, una che provenga dall’altra parte del deserto. Ecco dunque Leila, “principessa ribelle”, una donna coraggiosa che, sprezzante del pericolo, studia di nascosto e tramanda la sua cultura alle altre donne. Desiderando ardentemente di apprendere ogni carattere stampato sulle pagine dei libri e sfruttando ogni momento libero della giornata, Leila diventa moglie, sorella, insegnante e madre ma, ancor più, paladina di un universo, quello femminile, che reclama i propri diritti. La brava Leila Bekhti, però, non è spalleggiata da altri personaggi emotivamente e psicologicamente coinvolgenti tanto che lo spettatore ha ben presto l’impressione che il regista si sia lavato le mani del peso morale della propria opera. Il mondo che sognano le donne è una società diversa ma non migliore, una semplice copia di quel cosmo intrigato e travagliato delle soap-opera messicane che vedono in televisione. Loro si esibiscono in balli folkloristici, manifestano e scioperano per provocare i propri mariti solo quando ci sono altri spettatori (oltre a noi) disposti a guardarle. La musica e la fotografia diventano improvvisamente accattivanti salvo poi ritornare ad un’apatia monotona e costante come la società che rappresenta. Mihaileanu, insomma, dimentica la sua stessa lezione: “l’infinitamente piccolo può rivelarsi più maestoso di quello che, a prima vista, appare grande”.