Nei primi anni del Cinquecento Tommaso Moro coniò il termine Utopia per descrivere la città retta da una società perfettamente organizzata sotto ogni punto di vista. Sà mara è una città altrettanto ideale, posta al di là di un bosco nebbioso dove il saltimbanco Luis (Filippo Trojano) inizia il suo pellegrinaggio, alla ricerca di una città dove l’arte e la cultura possano portare effettivamente alla realizzazione di sé e della propria creatività . In un contesto storico come quello che l’Italia si trova a dover affrontare, dove «la cultura non si mangia», l’idea del regista Massimo D’Orzi appare non solo interessante, ma attualmente disarmante. Al suo esordio in un lungometraggio di fiction – dopo i documentari Adisa o la storia dei mille anni e Ombre e Luci – D’Orzi segue il peregrinare del protagonista alla ricerca di un luogo, che è in realtà un luogo dell’anima. Tuttavia, durante il suo viaggio, Luis si imbatte in una serie di personaggi tanto grotteschi quanto surreali che tuttavia hanno il compito di rendere più vero quel viaggio: dalla poetessa persiana che parla una lingua incomprensibile, alla ballerina Rosita (Federica Pulvirenti), unico elemento capace di far tentennare il saltimbanco. In effetti è come se nel film di D’Orzi vi siano due poli opposti, distanti e distanziati che combattono per attirare l’anima del protagonista. Se, da una parte, il suo desiderio di raggiungere Sà mara è il leitmotiv della narrazione, dall’altra la comparsa di Rosita e del piccolo Morito (Denis Bejzaku) portano alla luce un’altra via di realizzazione personale che passa attraverso l’archetipo della famiglia e del pater familias. A questo punto per Luis si aprono due strade: raggiungere Sà mara e realizzare se stesso attraverso la propria arte, oppure rimanere con Rosita e Morito e accettare una realizzazione condivisa da tutto il genere umano facendolo diventare parte di qualcosa di più grande. Il percorso di formazione di Luis si divide fra queste due polarità , ma invece di procedere in linea retta verso un obiettivo, la crescita del ragazzo avviene in circolo, in un continuo dondolare tra le sue idee e le sue convinzioni. Il dilemma del protagonista non riesce a creare empatia con lo spettatore, che viene escluso per via di prove istrioniche talvolta ridondanti, oltre che una diegesi ancorata alla propria lenta e ossessiva liricità . In Sà mara è forte la componente teatrale: dalla recitazione alla messa in scena, dalla fissità di molte inquadrature alla dizione impostata, D'Orzi restituisce allo spettatore un dramma teatrale à la Brecht. L’insistenza sui movimenti e sulla lentezza, insieme ad una musica di sole percussioni, inoltre, ricorda troppo da vicino la tradizione del teatro giapponese del Kabuki per permettere ad uno spettatore più scafato di non accorgersi della poca armonia tra il mezzo filmico e il contenuto messo in scena. Purtroppo non basta l’inesperienza del regista – qui anche in veste di sceneggiatore – a giustificare una pellicola tanto ambiziosa ma, al contempo, così poco cinematografica.