Il 6 maggio 2009, un barcone con a bordo 200 persone, tra uomini, donne e bambini, somali ed eritrei, viene rinvenuto, in avaria, a sud di Lampedusa. In virtù degli accordi di amicizia appena stipulati tra il governo italiano e quello libico, i passeggeri – pur trovandosi in acque internazionali – sono respinti e rimandati in Libia, dove vengono imprigionati, torturati e soggetti a vessazioni di ogni genere. Solo allo scoppiare della guerra, alcuni di loro tenteranno nuovamente di attraversare il mare. Il documentario di Andrea Segre e Stefano Liberti dà la parola a quelli di loro che oggi si trovano al campo profughi di Shousha, sul confine libico-tunisino o sulle coste del sud Italia, in attesa di ottenere asilo. Fà da filo conduttore la storia di Semere Kahsay, eritreo, che racconta la sua odissea: il viaggio in mare, la prigionia in Libia, la lunga permanenza al campo profughi e, da ultimo, il lieto fine. Nell’estate del 2011 Semere ha infatti ottenuto il diritto d’asilo, due anni e cinque mesi dopo la sua partenza dall’Eritrea. Il dibattito sul tema dei respingimenti, seguiti nel 2009 all’accordo tra l’Italia del governo Berlusconi e la Libia di Gheddafi, ha popolato per mesi le nostre cronache giornalistiche. Poi però la guerra in Libia è arrivata a cancellare ogni ricordo di stipule passate e con queste anche le vicende umane legate ad uno dei più sciagurati provvedimenti politici di tutti i tempi. Mare chiuso torna a raccontare una storia che tutti conosciamo, ma attraverso gli occhi e le parole dei suoi protagonisti: oltre 200 persone, tra rifugiati somali ed eritrei, arrivati in Italia nel maggio 2009 e subito respinti, restituiti alla Libia, al paese da cui scappavano perché perseguitati. Chi parla nel film sono i sopravvissuti, chi è riuscito a rifugiarsi nel campo profughi dell’UNHCR, a Shousha, chi è arrivato in Italia, in Calabria o in Basilicata, ed è ancora oggi “ospite” dei centri di accoglienza. Chi, come Semere Kahsay, è riuscito ad ottenere il diritto d’asilo e a rivedere dopo due anni la moglie e la figlia, partite per l’Italia solo qualche mese prima di lui. Il film, prodotto da ZaLab e realizzato con il sostegno di Open Society Foundation, è girato tra il campo profughi di Shousha e i due centri per i richiedenti asilo nel sud Italia, dove due dei rifugiati hanno trovato accoglienza. Oltre alle interviste, nel documentario è riportata anche l'udienza del processo contro l'Italia tenutosi alla corte di Strasburgo, che ha ritenuto illegittimo il provvedimento di respingimento e ha stabilito la cifra di 15.000 euro come risarcimento alle vittime. Il film, su stessa dichiarazione d’intenti degli autori, vuole sostenere una tesi ben precisa: la responsabilità delle violenze subite dai rifugiati in Libia, delle morti in mare e del drammatico traffico che ha investito il Mediterraneo tra 2009 e 2010, è del governo italiano e delle sue politiche. Le dichiarazioni dell’allora Premier Berlusconi e del ministro dell’Interno Maroni, l’ormai celebre dichiarazione di Gheddafi «Gli africani non hanno diritto all’asilo politico. Dicono solo bugie», pronunciata in occasione della visita in Italia nel settembre 2009, sono montate in un diretto confronto con le testimonianze dei rifugiati. La politica ne esce distrutta: le banalità dei capi di stato contro il racconto di un dramma umano dimenticato. I superstiti piangono e soprattutto accusano, con parole affilate come pugnali che il mezzo documentaristico raccoglie e con i quali trafigge lo spettatore. I militari ignoranti e violenti, le ore abbandonati al sole senza acqua né cibo, l’umiliazione del respingimento: nelle loro tende, in mezzo al deserto del Sahara, i migranti sono i protagonisti di uno spettacolo di malinconia e desolazione, ma anche di rabbia e dolore. La capacità dei registi di intervallare i racconti dei sopravvissuti con il prezioso inserimento di alcune immagini sul barcone e al momento dell’accoglienza riprese dal telefonino di uno dei protagonisti è, dal punto di vista del montaggio cinematografico, eccelsa. Così come le riprese, straordinarie sia nel raffigurare le vedute desertiche e i tramonti sulle tende marchiate UNHCR, sia i preziosi documenti video tratti dal processo di Strasburgo. Tuttavia l’unica debolezza del lavoro di Segre e Liberti è costituito proprio dal suo punto di forza, ovvero la vicenda di Semere. L’eritreo racconta del viaggio, della prigionia, dell’attesa da profugo. I registi narrano la sua storia, mentre si commuove, e non distolgono l'obiettivo nemmeno durante la telefonata in lacrime dell’uomo con la moglie e la figlia lontane. La macchina da presa lo segue mentre attende i documenti per partire, mentre si trova nella camera d’hotel, al momento di riabbracciare dopo due anni la famiglia. Una vera documentazione del dolore che lascia addosso allo spettatore una sensazione di invasione, come di essere entrato in uno spazio in cui una pellicola non dovrebbe addentrarsi. E la domanda sorge spontanea: dopo tanta abilità nel raccontare il dramma di una storia collettiva, era davvero opportuno utilizzare la stessa cifra per sdoganare i sentimenti di un solo uomo? Così come, durante le interviste ai rifugiati, la sensibilità registica consente di mantenere uno stile diretto ed efficace, allo stesso modo la chiusura del film nel segno del sentimentalismo abbassa di tono l’opera giornalistica e porta ad interrogarsi oltre che sulla deontologia, anche sull’efficacia cinematografica.