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Ghost Rider

22/03/2012 12:00

Martina Calcabrini

Recensione Film, CineComics, Marvel Comics, ghost rider,

Ghost Rider

Se c’è un supereroe perseguitato da maledizioni e tormenti infernali, quello è sicuramente Ghost Rider...

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Se c’è un supereroe perseguitato da maledizioni e tormenti infernali, quello è sicuramente Ghost Rider. Nato nel 1972 dalla penna di Gary Friedrich, Michael Ploog e Roy Thomas, il motociclista fantasma si è diversificato subito per le sue inusitate doti di supereroe. Non è di bell'aspetto, non è buono, e soprattutto non permette l’immedesimazione tra il lettore e il personaggio. A differenza dei villain, però, non può scegliere di essere in un modo piuttosto che in un altro: afflitto da una maledizione fatale, il cacciatore di teste è un’anima faustiana tormentata e torturata, un'anima dannata al servizio del diavolo. Le sue insolite caratteristiche fisiche e i suoi atteggiamenti crudeli e brutali, inoltre, hanno contribuito a creare quell’alone di mistero che ha tanto incuriosito il pubblico. Era inevitabile che, prima o poi, sarebbe riuscito ad attirare anche l’attenzione della fabbrica dei sogni hollywoodiana. Nel 2007, i Marvel Studios hanno deciso di affidare la realizzazione della trasposizione cinematografica a Mark Steven Johnson, il regista del tanto criticato Daredevil.


Johnny Blaze è un motociclista spericolato ed incosciente che realizza pericolose esibizioni acrobatiche insieme al padre. Quando scopre che questi è gravemente malato di cancro, Johnny stringe un patto di sangue con Mefistotele e scambia la sua anima con la pronta guarigione del padre. Il figlio del diavolo rispetta l’accordo ma, durante la successiva acrobazia, Mr. Blaze ha un grave incidente e muore sul colpo. Passano gli anni e Johhny, che intanto ha dovuto rinunciare a qualunque legame affettivo per paura di demoniache ritorsioni, tenta imprese sempre più pericolose, diventando uno dei più affermati motociclisti conosciuti. Contemporaneamente, Blackheart, il figlio di Mefistotele, lascia l’inferno per uccidere senza criterio uomini e demoni. Il diavolo, contrariato dal crescente potere del figlio, torna sulla terra per chiedere a Johnny di saldare il conto: potrà essere libero dalla maledizione solo se riuscirà ad uccidere Blackheart. Senza neanche rendersene conto, Johnny Blaze si trasforma in Ghost Rider, il cacciatore di teste mandato dal Diavolo a cercare coloro che sono fuggiti dall’inferno, uno scheletro dalla testa infuocata, armato di una catena distruttiva, che viaggia su una roboante ed esplosiva motocicletta. Dopo uno scontro mozzafiato con il demone, Johnny invoca Mefistotele per ottenere la sua ricompensa, dovuta. O forse no...


Si dice che l’Ovest sia costruito su leggende necessarie all’uomo per comprendere realtà ed eventi che non si possono spiegare. Ghost Rider sembrerebbe proprio essere una di queste. Sebbene la pellicola sia ambientata in una moderna metropoli, le (dis)avventure del protagonista implicano ambientazioni tipicamente western. Le scene d’azione e l’alto tasso di effetti speciali, sono accompagnati da una buona dose di musica coatta e da un montaggio talmente veloce da rendere il ritmo del film adrenalinico ed eccitante. Dall’autore di Daredevil, che aveva intravisto in Ben Affleck la possibilità di incarnare il supereroe mascherato e in Jennifer Gardner quella di interpretare Elektra, potevamo aspettarci di tutto. Johnson non ha avuto dubbi: l’unico attore hollywoodiano in possesso delle caratteristiche necessarie per incarnare il protagonista del fumetto Marvel non poteva che essere Nicolas Cage. Antieroe scomodo ma estremamente affascinante, furioso e sadico, capace di attuare il letale “sguardo della penitenza” e di prosciugare l’anima di una persona torturandola con lo stesso dolore che questa ha arrecato. Istrionico e macchiettistico, l’interprete di Drive Angry, presta su pellicola le fattezze all’eroe di carta, rendendolo immortale e anche un po' kitch. Uno spirito di vendetta che combatte il fuoco con il fuoco e che, rinunciando egli stesso alla propria esistenza (umana), dimostra che non bisogna necessariamente essere nel giusto per fare la cosa giusta.


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