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Il mio migliore incubo

24/03/2012 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Il mio migliore incubo

Agathe (Isabelle Huppert) è una donna rigida e autoritaria, che lavora per l'importante fondazione d'arte Cartier...

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Agathe (Isabelle Huppert) è una donna rigida e autoritaria, che lavora per l'importante fondazione d'arte Cartier. Vive in uno splendido e gigantesco appartamento che si affaccia sul meraviglioso scenario dei Jardins du Luxemburg, nel VI arrondissement di Parigi, insieme al marito François (André Dussolier) e al figlio. Patrick (Benoit Poelvoorde), al contrario, è un uomo che vive alla giornata, cercando di mantenere se stesso e il figlio attraverso lavoretti saltuari e il sussidio per la disoccupazione. Proprio attraverso l’amicizia dei due ragazzini, Agathe e Patrick entrano in contatto, dando il via ad una serie ininterrotta di litigi, in cui l’aria snob della donna si scontra con il tono scanzonato dell’uomo, finchè la netta separazione di classe e ceto non diventa altro che un elemento sfocato all’interno della relazione tra i due, che si fa man mano più intima.


Non è di certo la prima volta che la lotta tra classi differenti viene assunta come elemento scatenante della narrazione. Dalla letteratura al cinema, sono molte le storie d'amicizia e d'amore che hanno come nucleo le distanze sociali e culturali: si pensi ad esempio, al cult movie di Cameron Titanic, o al divertente in South Kensington, o ancora al commovente rapporto che lega i due protagonisti di Quasi Amici. Eppure, nonostante questo bagaglio nell’immaginario spettatoriale, Il mio migliore incubo evita la spirale del déjà-vu sebbene riproponga uno schema ormai ben collaudato. Questo grazie ad una sceneggiatura arguta e spumeggiante, che non fai mai sfoggio di volgarità e che si fa forte dei perfetti tempi comici dei protagonisti, in grado di interagire in modo non solo verosimile, ma anche molto accattivante. Il feeling tra Poelvoorde e Isabelle Huppert è così tangibile che è pressochè impossibile non lasciarsi trascinare dal vortice di situazioni surreali che la coppia di protagonisti deve fronteggiare: dalle discutibili capacità di Patrick come pittore e muratore, alla lastra di ghiaccio che sembra circondare il mondo di Agathe a cui nessuno riesce o vuole avvicinarsi. Un personaggio che, almeno all'inizio della pellicola, è molto facile detestare a favore di un uomo senza maniere ma dall'atteggiamento più estroverso. Personaggi opposti per conto di una società troppo spesso elitaria, Patrick e Agathe sono così diversi che immaginare una loro liason, nella vita reale, risulterebbe quantomeno fantasioso. Ma nella dimensione cinematografica i due trovano il modo di superare le barriere sociali, convergendo in un rapporto in cui l'uno completa l'altro.


La regista mette in atto una sorta di romanzo di formazione, in cui la freddezza della bella protagonista si scioglie man mano che l’amicizia con Patrick si approfondisce. Il distacco e il gelo dei dogmi della cultura cadono di fronte alla necessità umana di trovare qualcuno in grado di comprendere e amare non solo i propri limiti, ma anche e soprattutto quelli della persona al proprio fianco. Elegante nella realizzazione, Mon pire cauchemar è una commedia piena di raro brio in un genere che si fa forte di autentiche caratterizzazioni stilistiche e formali e che sembra allergico a qualsivoglia tipo di sfida autoriale. Il divertimento per lo spettatore è assicurato, insieme ad una dose non nociva di emozioni che, seppur semplici, colpiscono per la veridicità della morale che veicolano.


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