Alexander (George Sanders) e Katherine (Ingrid Bergman) sono una coppia di coniugi inglesi che vive il proprio rapporto più per abitudine che per effettivo sentimento. Di indole opposta – lui è così sicuro di sé da apparire arrogante, tutto preso dal proprio lavoro, lei è perbenista al punto da apparire snob, ferita dalla continua indifferenza del marito – i due dovranno confrontarsi con il proprio matrimonio grazie ad un improvviso viaggio nell’Italia meridionale. I signori Joyce, infatti, si trasferiscono a Napoli per ereditare la vecchia casa di un altrettanto vecchio zio. Proprio per la fragilità del rapporto, la vacanza italiana comincia con soggiorni separati: mentre Alexander passa il suo tempo a Capri in compagnia di alcuni suoi amici, Katherine veste i panni della turista, visitando quello che la città offre. Tutto procede bene finchè una furiosa lite porta i due ad un passo dal divorzio, costringendoli ad affrontare tutti i loro problemi. Se si volesse descrivere veramente Viaggio in Italia non bisognerebbe escludere il termine solitudine unito a crisi (di coppia). Temi non del tutto nuovi nella filmografia di Rossellini, che con questo film descrive il senso di solipsismo che ammanta l’essere umano di fronte alla società e al proprio partner. Una sorta di senso di vuoto, di alienazione, che appartiene ad ogni uomo e che comporta la nascita di continui problemi: Alexander e Katherine sono sposati, compagni di vita, e nonostante questo separati l'uno dall’altra, come se fosse impossibile creare un qualsivoglia legame in un mondo in distruzione. Emblematica la meravigliosa scena dello scavo a Pompei, quando i due coniugi scoprono gli scheletri di due amanti abbracciati (scena, questa, che sembra richiamare il finale del capolavoro di Hugo Notre Dame de Paris): la macchina da presa di Rossellini spia questo scavo e le reazioni dei due protagonisti, come un mondo in cui l’amore e la coppia non esiste più, nascosto sotto le macerie di una nuova società sovrastata da incomunicabilità e incomprensione. Realizzato in pieno neorealismo, la pellicola si discosta dai dogmi del movimento di cui lo stesso Rossellini fu pioniere, per la scelta di affidare il ruolo dei protagonisti non più ad attori presi dalla strada, ma a due grandi volti del cinema hollywoodiano; ma non per questo Rossellini rinuncia all’improvvisazione. Come nella maggior parte dei suoi film, la sceneggiatura è solo una traccia, uno spunto da arricchire man mano che la storia avanza. È come se il regista si divertisse a gettare i due grandi interpreti nella realtà seguendone reazioni e sensazioni. Come un amorevole padre, Rossellini dà alcuni consigli da seguire, ma poi lascia che siano i suoi attori a trovare la strada da seguire. Questa libertà – di sceneggiatura, più che di interpretazione – tuttavia ha un effetto negativo sull’opera, che rallenta nella descrizione dei personaggi (soprattutto quello di Katherine) poveri di un chiaro spessore psicologico o di un’analisi più approfondita che permetta allo spettatore di provare una maggior empatia.