Hong Kong, anni ’50. Il maestro Ip Man (Donnie Yen) e la sua famiglia si sono trasferiti nella metropoli cinese per aprire una scuola di arti marziali e diffondere la sua tecnica del wing chun fuori Foshan. La strada però è da subito seminata di ostacoli ed il maestro deve affrontare non solo i rivali cinesi del kung fu, ma anche la curiosità e l’astio del mondo della boxe occidentale. A fare seguire Ip Man sarà un nuovo alleato, il maestro Hung Gar (Sammo Hung Kam-Bo), nella lotta senza pietà contro il leggendario pugile noto come The Twister (Darren Shahlavi). In principio fu Ip Man. Miracolo di azione e arti marziali, combattimenti studiati come danze e l’affascinante ambientazione durante la resistenza cinese al Giappone della Seconda Guerra Mondiale. Il ritorno dei tempi d’oro del genere delle arti marziali. Due anni dopo, nel 2010, Wilson Yip torna a farsi cantore delle imprese dell’eroe nazionale delle arti marziali cinesi, passando dalla biografia all’agiografia con una disinvoltura tale da riuscire a smarrire, già nei primi minuti, tutta la potenza evocativa ed il tono epico della prima pellicola. Stavolta il teatro delle vicende è Hong Kong ed i nemici sono gli inglesi e la white boxe. Il tentativo è sempre quello di intavolare lo scontro fra due nazioni a partire dalla loro tecnica di combattimento più nota. Il risultato però, stavolta non convince fino in fondo. Mentre infatti continua ad incantare la costruzione perfetta dei duelli tra Ip Man e i maestri rivali, perplimono invece quelli sul ring tra il maestro e il pugile. E nonostante il monologo finale di Ip Man sulla necessità di usare uguale dignità ad oriente ed occidente, in quanto entrambi maestri nella loro arte, il concetto del film finisce per non riflettere le parole del lottatore. Persa qualsiasi vocazione epica, lo scontro si riduce in una banalizzazione della contrapposizione tra il “raffinato” oriente ed il rozzo occidente. Arti marziali contro cazzotti, il combattimento occidentale ne esce ridicolizzato al punto da perdersi qualsiasi parvenza di onore dei vinti. Si aggiunge in questa seconda pellicola anche una vocazione sentimentale, con sequenze come quella del combattimento finale, che si svolge in contemporanea alla nascita del figlio di Ip Man nella continua evocazione della morte del rispettato amico-rivale Hung Gar, ucciso in precedenza dal pugile inglese. Rimane intatta la bravura del protagonista Donnie Yen e la spettacolarizzazione dei duelli, ma si perde nel giro di dieci anni cinematografici - o di due anni della realtà - la poesia del racconto mitico del maestro che diventa qui una sua sterile celebrazione. Una chicca, in chiusa: la presentazione al maestro di un giovane ed arrogante Bruce Lee, finale che lascia aperta la porta al terzo film e firma il sigillo di appartenenza della pellicola al genere del più famoso attore-lottatore cinese.