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Il Mundial dimenticato

31/05/2012 10:00

Erika Pomella

Recensione Film,

Il Mundial dimenticato

«Ecco cosa sono i grandi Calciatori...

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«Ecco cosa sono i grandi Calciatori. Essi portano ogni domenica un soffio di fantasia e nuova vita; senza sangue né ira ridestano negli uomini stanchi qualcosa di eroico». Sono le parole che lo scrittore Dino Buzzati utilizzò per descrivere la tragedia di Superga, nel quale persero la vita molti giocatori della squadra del Torino. Le parole del giornalista tornano quanto mai utili oggi: esse richiamano alla mente l’immagine di uno sport capace di unire le masse, di diventare un vero e proprio mezzo di incontro. Il calcio che Buzzati racconta nel suo articolo è una disciplina pulita, divertente, quasi magica. Le stesse caratteristiche che i registi Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni hanno voluto regalare al loro Il Mundial dimenticato, film ampiamente apprezzato al Festival di Venezia, dove il calcio diventa lo strumento estremo per fermare la guerra e riportare la pace in un mondo in lutto.


La storia è quella di un fantomatico campionato del mondo avvenuto nel Regno di Patagonia nel 1942, in pieno conflitto nazista: un torneo mai riconosciuto dalle istituzioni ufficiali e per questo ammantato nella leggenda. C’è stato veramente quel torneo? E chi l’ha vinto? Chi è stato a “rubare” la tanto agognata coppa dalle mani vittoriose dell’Italia? Durante uno scavo archeologico, una troupe scientifica ritrova lo scheletro di un cadavere abbracciato alla sua macchina da presa: la bobbina nascosta al suo interno può forse ricostruire gli ultimi, entusiasmanti minuti di una partita fantasma, svolta al di fuori dei radar. O forse no.


Utilizzando una narrazione che fa dell’inchiesta la tecnica privilegiata, i due registi/sceneggiatori riescono a creare una sapiente miscela di documenti di repertorio, ospiti importanti (tra cui Roberto Baggio, Victor Hugo Morales, Jorge Valdano) e sano ottimismo, dando vita ad un’opera a metà strada tra la fiction e il documentario che deve la sua pregnanza proprio al limite sottile che separa la leggenda dalla realtà. Cosa c'è di vero e cosa solo (egregiamente) ricostruito: lo spettatore rinuncia al tentativo di svelare l’inganno, lasciandosi irretire da un campionato che lascia inalterata la forte carica emotiva. Questo anche grazie alla fotografia di Alberto Iannuzzi che ha il merito di descrivere una Patagonia dai contorni favolistici, con l’uso di colori e filtri che ne evidenziano da una parte la bellezza inviolata e dall’altra la distanza dal resto del mondo, in un regno argentino appartenente ad una dimensione altra. Senza ricorrere ad immagini ad alto impatto visivo, la Patagonia de Il Mundial dimenticato è un universo che sta dietro le linee, che dà profondità alla storia senza mai tentare di rubarle la scena.


Soprattutto la pellicola è la messa in scena di profondi travolgenti passioni. Il ritrovamento di un cadavere abbracciato ad una vecchia macchina da presa – che in parte richiama il capolavoro letterario Notre Dame de Paris – riesce, in pochi riusciti attimi di poesia, a rimandare l’immagine di un amore assoluto per il cinema in tutte le sue forme: dalle origini fotografiche fino alle invenzioni più surreali. Allo stesso tempo si celebra l'inno a un Calcio che probabilmente non esiste più. Con richiami più o meno espliciti alla storia calcistica mondiale – dall’azione offensiva che ricalca quella di Gianni Rivera alla semifinale del 1970 contro la Germania Ovest, ai rimandi alla storica rivalità tra la nazionale azzurra e quella tedesca – Il Mundial dimenticato diventa anche un’accusa acerba al calcio di oggi, tra stipendi stellari, sotterranee marcescenze, e giochi di poteri più o meno espliciti. «La Fifa è ostaggio dei regimi», afferma il conte Otz; oggi è ostaggio di quell’avidità e di quel capitalismo che gravano su ogni aspetto della vita. Garzella e Macelloni chiedono umilmente ascolto, per un ritorno allo spettacolo senza macchia, ad un amore che non passa necessariamente per il conto in banca. In mezzo a questi due snodi centrali – il cinema e il calcio – trova infine spazio l’uomo, l’individualità eccezionale di tutti coloro che presero parte al fantomatico torneo e che si raccontano guardando in macchina, lasciando che i registi insistano su sguardi colmi di nostalgia e rimpianto. Il risultato finale è un film malinconico e commovente che, tuttavia, non rinuncia a slanci di comicità quasi disarmante, attraverso personaggi eccentrici come l’arbitro che al posto del cartellino tira fuori un revolver carico o la squadra dei Mapuche, strizzata d’occhio all’anime Holly e Benji e alle acrobazie improbabili dei gemelli Derrick.


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