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7 Days in Havana

07/06/2012 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

7 Days in Havana

Sette registi – tra cui spiccano gli acclamati nomi di Elia Suleiman, Julio Medem e Pablo Trapero - confezionano altrettanti cortometraggi che compongono il fi

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Sette registi – tra cui spiccano gli acclamati nomi di Elia Suleiman, Julio Medem e Pablo Trapero - confezionano altrettanti cortometraggi che compongono il film corale 7 Days in Havana con l'intenzione di restituire l’immagine reale e forse più nascosta di quel paradiso al di là dell’oceano che è Cuba. La pellicola tenta di restituire l’aspetto tentacolare di un paese pronto ad inghiottire ogni visitatore nelle proprie spire, proprio come avviene al protagonista del capitolo intitolato Diary of a beginner. Sette frammenti, ognuno dei quali ripercorre una giornata passata nella cornice dell’Havana: nell'arco di una settimana - da lunedì a domenica - la pellicola presenta personaggi autoctoni o stranieri, tutti trascinati nella vorticosa maestosità di un paese ricco di storia e fascino.


Quello che, purtroppo, ne viene fuori è un film spaccato grossolanamente in due. Da una parte – che comprende gli episodi più riusciti, come quello firmato da Benicio Del Toro che vede con protagonista il lanciatissimo Josh Hutcherson di Hunger Games – lo spettatore assiste alla messa in scena di stereotipi ormai consunti sulla cosiddetta movida cubana. Un’accozzaglia di belle donne, rum e transessuali è tutto quello che i registi riescono ad offrire di una terra e di un popolo fortemente ancorati ad un immaginario collettivo dal quale non riescono a scappare. Come succede alla protagonista del debole La tentaciòn de Cecilia, giovane cantante divisa tra le sue origini e il sogno di una vita altrove, il tutto recitato con il pathos tipico delle soap-opera argentine. Dall’altra parte il caos di immagini frastornanti, dove il filo conduttore si disperde in una sorta di contemplazione arida dell'Havana, infastidisce proprio dove avrebbe dovuto affascinare. Episodi che stonano con l’idea d’insieme – come ad esempio Ritual, che appare prepotentemente fuori posto – appesantiscono una diegesi che non riesce mai a decollare, rimanendo incagliata ad una didascalica costruzione scenica, che non permette una fruizione emotiva o anche solo partecipativa. Dal punto di vista tecnico 7 Days in Havana è ineccepibile, dimostrando da un lato l’ottima padronanza del mezzo da parte dei registi, ma dall’altro che tale abilità rimane sterile in una messa in scena vuota e anonima, il cui messaggio di fondo si perde a favore di un disordinato, petulante e prolungato esercizio di stile.


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