Talvolta si può riassumere il racconto della propria vita in una fulminea giustapposizione di memorie, fotogrammi sbiaditi ma distinguibili, lontani simulacri appartenenti ad età sfogliate nell’album degli affetti, dei desideri, tra pulsioni inconsce, fobie sotterranee e ossessioni sismiche confluenti tutte in unico presente. L’altrove inafferrabile dei ricordi assume i contorni sfocati del sogno, in cui il profilo reale si confonde con le molteplici facce riflesse in specchi appena lesionati, e le conversazioni mai intraprese diventano sfuggenti espressioni indossate o solo puramente immaginate. In questo intreccio inestricabile, ogni singolo atto, ogni piccola rivoluzione quotidiana, subìta o accennata, bisbiglia appena, come il dispiegarsi di una bobina, impressa delle immagini di vita vissuta che non è possibile dimenticare. Cameron Crowe rielabora Apri gli occhi di Amenabar, scrivendo una storia che segue le accattivanti e fumose tracce oniriche del racconto d’origine, e smarrisce i propri passi in un voluttuoso amarcord di cultura massmediatica – nel quale, per ogni spettatore, è dolce perdersi -, proiettando su di esso l’accenno di un antideterminismo di immediato consumo. David Aames (Tom Cruise), giovane rampante erede di un impero editoriale, ha carisma, fascino, e un cospicuo conto in banca. La vita sembra scorrergli addosso offrendogli tutte quelle futili amenità prive di un significato profondo: passa da una donna all’altra, guida automobili sportive e vive in un appartamento che ostenta la celebrazione del lusso e dell’inutilità . Ma alla festa del suo trentesimo compleanno David si innamora perdutamente di Sofia (Penelope Cruz), una ragazza mai vista prima, grazie alla quale viene travolto da sensazioni nuove, che gli mostrano per la prima volta l’autenticità dei sentimenti. Quando incontra per strada Julie (Cameron Diaz), la donna con la quale ha un rapporto fatto di fugaci e vuoti incontri, quest’ultima dopo averlo invitato a salire a bordo della sua auto, in preda a un raptus di gelosia esce fuori strada schiantandosi contro un muro. Sfigurato e mentalmente instabile, da quel momento in poi David diventa una pedina travolta dal flusso vorticoso e delirante di un destino beffardo: la verità si confonde col falso, gli incubi del passato si sovrappongono ad un presente impalpabile. L’unica certezza alla quale aggrapparsi è il ricordo di una notte e dell’unica donna che abbia mai amato. Laddove Alejandro Amenabar innalzava pareti labirintiche nella mente umana, regolata da vasi comunicanti in cui il livello di consapevolezza saliva di pari passo con brumosi percorsi onirici e la zona mnemonica veniva contaminata dalle opprimenti deformità dell’incubo, Crowe si concentra sul labile spartiacque che separa l’inseguimento o il ricordo della felicità dalla negazione di qualsiasi perfezione del sentimento amoroso, cadenzato da abbracci rimandati, occasioni perdute ed errori irreparabili. Profondo divoratore di cultura musicale, Crowe conosce i tempi emotivi del sottofondo sonoro, che infarcisce di brani estremamente evocativi (da Paul McCartney a Jeff Buckley), conducendo lo spettatore ad un malinconico percorso d’immedesimazione. Il tema di Nancy Wilson, o la struggente Nothing song di Sigur Rós, con il loro mesto fluire, evocano gli inesorabili percorsi dell’esistenza, battuti, talvolta stravolti dalle conseguenze delle grandi e piccole scelte, lasciando addosso una sospesa nostalgia di arterie pulsanti, di pupille balenate da lucori incandescenti, di battiti irregolari che impazzano e scandiscono il senso di tutte le cose, degli amori possibili, di quelli vissuti o soltanto sfiorati. La riconferma dell’incantevole Penelope Cruz – Sofia anche della pellicola amenabariana – è la visione sognante dietro la quale si nasconde quell’amore che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo lasciato allontanarsi.