Se gli anni ‘40 hanno avuto Joe Louis, i ‘60 e ‘70 Alì, Frazier e Foreman, gli ‘80 Tyson e i ‘90 Holyfield e Lewis, non c’è dubbio che il nome di punta della boxe mondiale degli anni 2000, tra i pesi massimi, sia quello dei due fratelli Vitali e Wladimir Klitschko. La loro ascesa nell’Olimpo del pugilato, avvenuta parallelamente all’inizio della crisi qualitativa e di pubblico che ha coinvolto la boxe, ha fatto in modo che la loro fenomenale carriera sia stata sempre sottoposta a critiche di ogni genere: due grandi campioni ma privi di degni avversari con cui confrontarsi (sono anni che la boxe propone grandi atleti solo nelle categorie di peso inferiori, stilisticamente ancora più belle ma decisamente di presa molto inferiore sul grande pubblico), due persone estremamente colte, intelligenti e posate, di ottima famiglia, in un mondo che per decenni era stato appannaggio di colored dall’infanzia disastrata, cresciuti nei bassifondi e in cerca di riscatto (ascoltare a tal proposito l'intervento di Shannon Briggs). Bianchi e ucraini, ma nati e cresciuti all’ombra del comunismo sovietico, arrivati a dominare in uno sport che, a livello di pesi massimi, parla da decenni quasi esclusivamente a stelle e strisce. Il regista tedesco Sebastian Dehnhardt, attraverso interviste, filmati d’archivio e riprese ad hoc, ripercorre la vita e la carriera dei due fratelli nati in Kazakistan, ai confini con la Cina, figli di un ufficiale dell’esercito e di un’operaia. La loro infanzia si dispiega tra l’estremo oriente, l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia per seguire gli spostamenti del padre; poi il ritorno nell’Ucraina devastata dal post-comunismo prima e da Chernobyl poi. L’approccio al combattimento tramite il kickboxing e l’approdo alla boxe, la medaglia d’oro di Wladimir alle Olimpiadi di Atlanta, l’arrivo in Germania e il lancio dei due fratelli nel professionismo coronato da una striscia impressionante di titoli e trionfi. Non si può non rimanere affascinati nel guardare così da vicino la filosofia di vita e la disciplina di due fratelli campioni del mondo nello stesso sport, caso più unico che raro. Ed è sicuramente interessante vederli gestire un rapporto così solido e stretto nonostante la rivalità - impossibile da cancellare quando si compete ad altissimi livelli - per gli stessi identici obiettivi. A suscitare ancora maggiore attenzione, però, è il racconto dei loro primi passi nello sport, iniziato solo vent’anni fa: dal kickboxing praticato inizialmente in modo clandestino perché vietato nell’Unione Sovietica come disciplina immorale, alla crisi dell’Ucraina post URSS, dalla medaglia olimpica al salto verso il professionismo (devastante per un’enorme percentuale di atleti) attraversato senza conseguenze e con una lucidità mentale incredibile per ragazzi così giovani (chi direbbe di no ai soldi di Don King?). Un percorso cosparso di sudore, sofferenza e sangue, tra allenamenti massacranti e combattimenti al limite che hanno portato i fratelli ad essere idolatrati nella loro Ucraina, nel loro paese adottivo, la Germania, e nel mondo intero. Due pugili-gentleman come non se ne vedevano dai tempi del loro idolo, Max Schmeling, che hanno tramutato la diffidenza in rispetto, la paura in coraggio, la disciplina in religione.