Esiste un interstizio immaginifico e drammaturgico in cui l’arte cinematografica diventa via di fuga dei deliri della mente, lì dove i raccordi mnemonici si incastrano con disfunzioni della realtà incomprensibili. Circuiti neuronali mandati in corto dallo sgretolamento delle certezze sulla vita, sull’autenticità dei giorni vissuti, sulle persone che ci circondano, sull’identità che ognuno di noi indossa. Ben prima dei criptici labirinti binari di Matrix o dei paradossi architettonici di Inception, Alejandro Amenabar incanala orme evanescenti nei rarefatti e deserti vicoli dell’illusione, del sogno come unica possibilità di salvezza dall’aberrante deformità del reale. I ricordi passati e futuri che percorrono le pareti traslucide di questo tunnel dissociativo, una volta dismessa la maschera delle illusioni, si rivelano ombre oscure di repellenti deformità, e il sogno, con i suoi seducenti aneliti di felicità, cede il passo al peggiore degli incubi. Cesar (Eduardo Noriega), giovane madrileno di successo, si ritrova dal cavalcare l’onda di ricchezza e avvenenza, allo sprofondare nell’abisso di un manicomio criminale, rinchiuso in cella con l’accusa di omicidio e costretto ad indossare una maschera per nascondere gli sfregi sul proprio viso. Attraverso l’aiuto di uno psicologo, cerca di riportare a galla le tappe che hanno condotto la sua vita in quella prigione. Ciò che emerge è il ricordo di una notte, in cui Cesar conosce Sofia (Penelope Cruz), e se ne innamora perdutamente. Ma quando sembra finalmente assaporare la felicità vera, non quella artefatta a cui è avvezzo, il destino lo trascina in un incubo senza fine. Dopo la notte che trascorre con Sofia, Cesar incontra Nuria (Najwa Nimri), amante passeggera di qualche appuntamento, e accetta di salire a bordo della sua auto. Quest’ultima, per vendicarsi del tradimento, esce fuori strada e si schianta contro un muro, suicidandosi e lasciando Cesar terribilmente sfigurato. Apri gli occhi. Tre parole che diventano rintocco ritmato, richiamo indotto alla vita, che invocano il risveglio da una dimensione sognante, cadenzato come il battito cardiaco verso gli ultimi pulsanti attimi vitali. Dopo aver inibito e confuso la percezione sinestetica attraverso un progressivo distacco dalla veglia, come un ipnoterapeuta col proprio paziente, Amenabar guida il protagonista e lo spettatore in una zona grigia, ovvero in quel tempo di ripristino delle capacità cognitive dal sopore della trance. In questa ipnosi cinematografica regressiva, il regista cileno semina delle tracce di distorsione onirica nell’inconscio di un personaggio barcollante, per modificarne lo stato di coscienza e operare in quel settore della mente dove stagnano le esperienze apprese nel corso della vita. In questo contorto sentiero psicologico, anche il ricordo dell’amore – e l’amore stesso - vengono trasfigurati in un mondo di maschere e illusioni, paure e ossessioni della mente, celate verità e ipocrite convenzioni sociali, che imprigionano l’essere umano in una condizione di alienazione, di emarginazione, di allucinazione cosciente. Ognuno di noi, protagonista e vittima delle proprie scelte, non è altro che una preda inconsapevole di vertigini subconscie, perennemente in bilico tra passato e presente, bellezza interiore e mostruosità fisica, amore e solitudine. Con più di uno sguardo teso a Vertigo di Hitchcock, Amenabar utilizza il mezzo filmico come veicolo privilegiato per rappresentare l’ineffabile dimensione neuronale, tra voragini di follia psicotica e paranoiche turbe cerebrali.