Il terzo capitolo della saga supereroistica griffata Raimi è, senza se e senza ma, il film più sottovalutato e incompreso della prima decade dei 2000. Bersagliato su più fronti, liquidato con il beneficio della sufficienza o poco più in quanto film diretto da Sam Raimi e basta, Spider-Man 3 continua a pagare l'attesa al varco di fan e detrattori, nonostante quest'ultimo tassello rappresenti, tempo che scorre alla mano, probabilmente l'episodio più ambizioso e meglio riuscito della trilogia in questione. Quello insomma, “invecchiato” meglio. Principale motivo del contendere è da sempre la sceneggiatura, curata da Alvin Sargent, lo stesso regista e Ivan Raimi: colpevole, secondo la maggioranza, di aver esagerato in fatto di personaggi e situazioni; gli stessi che, una volta chiamati in causa, finirebbero per affollare la scena, saturandola fino al soffocamento.
Eppure il capitolo conclusivo della trilogia piace proprio per la simultanea presenza di quattro individualità dalle capacità extraumane, invero mossi da desideri e pulsioni del tutto terrene, riassumibili con il termine vendetta. Questo il desiderio di Harry Osborn, consumato dal crescente odio nei confronti dell'amico d'infanzia e ora colpevole, scoperto, della dipartita paterna. Così come Flint Marko, evaso di prigione solo per correre al capezzale della figlia malata. Questo cerca di ottenere Eddie Brock all'indomani del licenziamento e della perdita dell'amore (Gwen Stacy). Ciò, infine, bramano gli schiumanti occhi di rabbia di Peter Parker, uno volta compreso che la mano capace di mettere fine alla vita di zio Ben era, effettivamente, quella di Marko. Raimi, dopo averne testato le capacità con Spider-Man 2, spinge sull'acceleratore dei sentimenti amplificando a dismisura l'effetto melodrammatico che percuote le corde nascoste della pellicola: regalando, a chi nei precedenti episodi aveva apprezzato più di ogni altra variante la componente caratterialmente vinta e dolorosa dei protagonisti, quanto di meglio poteva aspettarsi.
Certo, Spider-Man 3 non si trascina dietro solo petali: anzi, di tanto in tanto sembra anche inciampare, provato com'è dalla responsibilità di sopperire a cotanta abbondanza; nonostante ciò non dà mai l'impressione di soffrire di fiato corto. Tutt'altro: a dispetto dei 140 minuti di durata (a conti fatti decisamente più leggeri e ben impiegati rispetto al medesimo minutaggio scelto da The Amazing Spider-Man di Marc Webb) e delle inevitabili divergenze con la storia su carta, invero sempre presenti fin dal prototipo e non per questo decisive ai fini di un giudizio finale. Apprezzare, e non comprendere, questo capitolo ha a che fare con una precisa postura prima cinefila e subito dopo critica, da adottare al momento della visione. Dietro la mirabilia tecnica di Sam Raimi c'è molto di più, nello specifico un microcosmo di uomini, giovani e non, custodi di grandi capacità mosse da cuori terrestri. Tutti, al termine dello spettacolo, meritevoli di tale palcoscenico sopratutto per scrittura, la stessa che regala vita cinefila a Marko/SandMan: villain che pare precipitato direttamente da un gangster movie con James Cagney.