La perfezione, probabilmente, non appartiene a questo mondo, troppo indaffarati come siamo, nelle nostre fugaci vite, a rincorrerci e consumare rutilanti chimere e miti di progresso, di benessere, illusioni e palliativi antidepressivi. Ma nella pindarica ricerca di appagamento terreno, che sia estetico, morale o più squisitamente epidermico, l’espressione artistica, nelle sua eterogenea e controversa morfologia secolare, addolcisce l’amaro sconforto dell’ingannevole promessa, affabulante e puntualmente disattesa, che la felicità sia a portata di schioppo. Ma se la perfezione non è di questa terra, sul grande schermo essa esiste: ha un creatore e un titolo che ne rappresentano il compendio accattivante, indimenticabile, irresistibile e mai eguagliato nell’intrattenimento degli anni passati e a venire. Dopo aver assistito ad un regolamento di conti tra bande di gangster il giorno di San Valentino, Joe (Tony Curtis) e Jerry (Jack Lemmon), due musicisti squattrinati di Chicago, per salvare la pelle, si fingono rispettivamente sassofonista e contrabbassista donne per ottenere l’ingaggio in una orchestra femminile diretta in Florida. Camuffati da Josephine e Daphne, i due scapestrati si imbarcano sul treno all’insaputa di tutte le componenti della jazz band, facendola in barba a direttrice e impresario, e anche a Zucchero (Marilyn Monroe), cantante che si strugge per una vita sentimentale colma di delusioni. Ma durante la tournee, la coppia di fuggiaschi dovrà vedersela con pulsioni amorose, invaghimenti, corteggiamenti di attempati e milionari playboy, delinquenti e malavitosi con conti da saldare pronti a tutto pur di smascherare i due scomodi testimoni. Celeberrimo, celebrato e ammaliante cinetesto del cinema americano e occidentale, A qualcuno piace caldo è una vera contraddizione storica. Perché mentre i suoi protagonisti vengono rimpallati in turbinosi andirivieni, il capolavoro di Billy Wilder resta ancorato nel suo spazio fluttuante e sospeso su decadi che scorrono e maturano avvicendandosi senza sosta, incurante dell’affaccendarsi di generi e letterature cinematografiche trafelatamente alle calcagna di punti di riferimento sfuggenti e spesso inconsistenti. I binari stilistici, così come i vagoni contenutistici trainanti, sono immediatamente riconoscibili: dal gioco delle parti ai travestimenti - armi antiche quanto la storia della rappresentazione teatrale – si passa a rivisitare i gangster movie delle ghette, degli inseguimenti urbani e delle mitragliate alla Hawks, e i variopinti tocchi lubitschiani di sapida e sopraffina ironia, attraverso il vorticoso rinvigorimento wilderiano dettato da tempi, equivoci e doppi sensi sfrontati e deliziosi. È come se il mito di Chicago degli anni venti, del proibizionismo e della Grande Depressione, la tradizione degli stilemi hollywoodiani, tra mistificazioni, fughe ribollenti di jazz e allusioni schermate dal maliardo ammiccamento della macchina da presa, in A qualcuno piace caldo vengano indossati per la prima volta, e mai così su misura, nella storia dello spettacolo. E dietro le maschere di un cast spumeggiante, dietro la verve comica e un garbo sconsideratamente vorace, il regista di Viale del Tramonto lascia trapelare la sua disincantata e agrodolce visione del mondo: ci si arrabatta tutti per sbarcare il lunario o per sfuggire alle amarezze e alle inguaribili vulnerabilità quotidiane. Tra espedienti e sotterfugi, ci si traveste e si finge di essere quel che non si è, in fuga dalle stesse e sempre uguali tribolazioni della vita.