Il sette e il tre condividono la valenza stratificata di tutti quei simboli, rimandi iconografici, riferimenti collettivi contenutistici e formali che affondano radici semantiche e note giacenze culturali nelle millenarie culture di ogni angolo della terra. Per il suo valico tra i cancelli della mecca di Hollywood, David Fincher se li gioca entrambi e su di loro scommette i primi passi importanti della sua carriera. E se nei meandri sulfurei dei sette peccati capitali sospinge le angosce metropolitane di poveri diavoli e tormentati miserabili, attorno al terzo capitolo della saga inaugurata da Ridley Scott fa sorgere una grumosa e stagnante trama di condotti fumosi e di angoscianti bollori sotterranei. Un girone infernale in cui la componente fantascientifica dei predecessori viene inibita lungo la passerella incandescente del più profondo sudiciume fobico, e in cui gli ultimi battiti di coriacea e muliebre speranza percorrono le lingue ardenti di un altare che sembra, ancor prima che sacrificio presagito, atto di necessaria purificazione. Dopo il disastro della Nostromo nello spazio e la carneficina dei Marines su suolo alieno, il tenente Ellen Ripley (Sigourney Weaver) sopravvive a un atterraggio di fortuna sul pianeta Fury 161, una colonia penitenziaria maschile in cui assassini e stupratori scontano il proprio ergastolo. Risvegliata dall’ipersonno, ma non riuscendo a scrollarsi di dosso l’opprimente incubo di un terrore impossibile da scongiurare, la donna fa cremare i cadaveri della capsula con la quale si è salvata. Ma quando macabri incidenti e inspiegabili morti destano la sordida monotonia del carcere, per i detenuti giunge inesorabilmente il momento di scegliere se attendere una fine atroce, oppure mettersi sulle viscide tracce della mostruosa creatura. Per Ripley è il sintomo che l’orrore, questa volta, è ancora più imminente che negli scontri del passato, e si alimenta come un respiro che pulsa in grembo: forse la minaccia da debellare non è più soltanto fuori di lei. La travagliata sceneggiatura di Walter Hill e David Giler recupera lo scheletro della saga di Alien, con la sua primigenia pulizia sintattica e cupa chiarezza di intenti, e lo ammorba nelle viscere di una allegoria millenaristica, tra i sudori e le sozzure di asfissie apocalittiche. In questa fonderia di pene, condanne e redenzioni, Fincher imprigiona l’universo umano e alieno, non più spaziale e cosmico – sono pressoché inesistenti le inquadrature di esterni – ma tellurico e sotterraneo, infognato nei soffocanti meandri della paura, quella tangibile dei lavacri di sangue e di resti putrescenti. La stessa Sigourney Weaver, algida e distaccata con Ridley Scott, umana e materna secondo James Cameron, è, anch’essa in questo contrappasso allucinato, assediata dallo sfacelo generale, mentre vagabonda sempre più solinga in cunicoli labirintici e caliginosi, con addosso i sintomi visibili del degrado della carne, rasata e scarna come gli eterni condannati danteschi. Purtroppo all’aumentare del ritmo sbiadisce il timbro più personale della pellicola, che vede nell’apparizione finale della tanto vagheggiata Compagnia l’intrusione di un ospite non desiderato durante un convivio a due nella bocca dell’inferno. Un abissale altoforno, in cui l’esordiente David Fincher carica, appena modellati, i materiali agglomeranti del suo primo cinema fatto di quell’estetica necrofila che si sposta per obitori, autopsie, scene del delitto, senso del macabro e del grottesco, sfornati successivamente ed esibiti nella fiera diabolica delle bolge perentorie di Seven.