
Non proprio quello che si direbbe un gradito ritorno. Quanto meno non per i suoi persecutori, detrattori o casuali passanti capitati sulla strada che incrocia il suo furente cammino. Dopo colui che viene ricordato come il precursore del XX secolo, Londra viene scelta ancora una volta come teatro dall’elevato coefficiente di idoneità per la tabula rasa di un altro personaggio col vezzo dell’omicidio. Nella sua prima apparizione in L’abominevole Dr. Phibes, Robert Fuest aveva costretto Scotland Yard a rincorrere col fiato corto l’eccentrico organista dispensatore fantasioso di morte, accompagnato da un’orchestra di musicisti meccanici e dal lugubre violino della sua letale assistente. Ancora una volta, Anton Phibes torna all’opera per amore, e sempre lasciando sulla propria scia cadaveri seviziati, torturati, privati della vita secondo le più sofisticate ed elaborate modalità di esecuzione. Sono passati tre anni dalla vendetta del Dr. Phibes (Vincent Price) perpetrata ai danni dei nove medici colpevoli di aver causato la morte della moglie Victoria durante un intervento chirurgico. Adesso l’ingegnoso omicida è tornato per recuperare un antico papiro sottrattogli durante la demolizione della sua casa: sulla mappa sono trascritte le indicazione per raggiungere in Egitto una grotta che custodisce l’elisir di lunga vita. Ma, come il dr. Phibes ne ha bisogno per riportare in vita la moglie, qualcun altro è ugualmente interessato a impossessarsi del miracoloso balsamo dell’immortalità . Il ricco e astuto magnate Biederbeck (Robert Quarry), infatti, sfiderà il vendicativo e diabolico organista, tra scavi egizi e tombe faraoniche, alla ricerca del fiume della vita. Fuest ricostituisce la troupe del 1971, con l’inserimento di un più degno e scaltro antagonista, e sposta l’ambientazione tra i venti sahariani e scavi archeologici sotterranei, ammantandoli di memorie del cinema esotico degli anni ’20 e del suo gusto spiccatamente kitch. Se nello schema delle nove morti londinesi, l’attenzione fruitiva trovava degli anelli di congiunzione ai quali appigliarsi agevolmente, l’esotismo egiziano che avvolge le nuove vicissitudini di Phibes ne insabbia anche il ritmo delle azioni e delle uccisioni, che diminuiscono in quantità e, senza uno schema di riferimento, rimangono prive di quegli ingranaggi causali. Non si può certo dire che ci si sarebbe aspettato qualcosa di ben preciso e diverso dopo i pindarici deliri di sangue del diabolico demiurgo nella sua prima comparsa. Vincent Price ne conserva lo spirito e incarna una maschera ancora più esagerata, prestando un ventaglio di espressioni maggiormente allucinate nell’asservimento di una sceneggiatura che si compiace con più smodata irriverenza del suo carattere umoristico. D’altronde nello stesso allaccio della trama - che vede il dr. Phibes non più morto come si credeva alla fine del film precedente, ma dormiente e risvegliatosi dopo un sonno lungo tre anni - risiede una dichiarazione di fedeltà al carattere burlesco dei due atti. Peccato che, diversamente dal suo protagonista, l’anima più autentica dell’intuizione originale si risvegli solo nell’opulenza sadica delle torture nella mezz’ora finale. Altrimenti, sarebbe stato addirittura superiore al suo predecessore.