L’amore è il risultato di un’equazione impossibile da risolvere uniformemente, un’incognita il cui valore assume, di volta in volta, di esistenza in esistenza, sfumature cangianti, difformità inconciliabili. Nel suo calcolo però, due varianti coincidono sempre: il quadrante del tempo diventa lo spazio finito attraverso cui i sentimenti si dilatano, scorrono, si liquefanno; pareti rocciose sulle quali le pulsioni si frangono e si frammentano, tappeti sabbiosi lungo i quali i sensi ansimano nella casualità di un incontro. E in questo imperturbabile e aleatorio mistero, il sentire muliebre si erge a canale privilegiato e sostantivo difettivo dell’arcaico stupore trasmissivo, creatore mutevole, organismo animale e animato, essere vivente pregno di reticoli e codici ontologici. Come le bianche sponde accolgono il respiro oceanico che irrompe, che avanza e si ritira con le sue maree, il grembo femminile si dilata e si raccoglie in un abbraccio voluttuoso, incidentale, viscerale che è principio e fine di ogni palpito, e di ogni pena. Rebecca raggiunge il nonno per trascorrere qualche giorno nella casa al mare. Un pomeriggio di un giorno di pioggia, incontra un altro bambino, Thomas, col quale stringe amicizia. I due provano un sentimento ancora acerbo ma improvviso e intenso per l’altro, talmente forte da sopravvivere al tempo e alle distanze. Rebecca infatti va a vivere a Tokyo con la madre, e quando ritorna, dopo dodici anni, ritrova Tommy e con lui, finalmente, si lascia travolgere da quel vortice amoroso solo accennato al tempo dell’adolescenza. Ma quando la loro relazione comincia appena a dispiegarsi, il ragazzo perde la vita in un incidente e Rebecca, rimasta da sola col proprio dolore, per la seconda volta deve affrontare una promessa d’amore interrotta. Ma i tempi in cui vive la giovane donna le donano la possibilità di poter clonare Tommy, restituendogli la vita attraverso il proprio ventre. Mentre Rebecca vede crescere nel corpo del figlio i lineamenti dell’amato, comincia ad avvertire e a convivere con pulsioni contrastanti, avviluppate ad un morboso istinto materno. Non una pellicola di parole questa di Fliegauf. Piuttosto piena di tutti quei silenzi di cui si compongono le relazioni interpersonali, amicali, familiari, percorsa da sospiri colpevoli e sguardi anelanti. La voce che viene consegnata a Womb è pittura visiva, ciclo emotivo al di là di connotazioni spaziali – a parte Tokyo non viene nominato mai il luogo di appartenenza dei protagonisti – o temporali. Nell’uggiosa umidità di baie marittime, di desolate spiagge ingrigite dall’inverno e raffreddate dal mare del nord, il gorgoglio liquescente diventa acquitrino originario delle necessità pulsionali. In questo meraviglioso scenario fotografico, il grembo del titolo trasferisce il suo riferimento letterale, da feto materno a dimensione bipolare esclusiva nella quale vivono i due protagonisti, e si consacra, attraverso il lento dispiegarsi del proprio cordone ombelicale, come metonimia di tutti i rapporti d’amore sanguigni e disperati, fatti di dipendenze e bisogni, di pretese di appartenenza, di desideri inconsci o carnali, di morbose e ossessive apnee. Attraverso le tensioni del legame edipico madre/figlio – snodo antropologico agli albori dell’umanità , ancestrale sorgente eziologica della psicanalisi, dei suoi slarghi teorici comportamentali, perfino del gioco di specchi alla base del meccanismo finzionale del teatro e dello spettacolo –, e soprattutto grazie ad un’interprete, insieme dolce e perturbante, in grado di incollare su di sé le maglie del racconto, il regista ungherese valica l’aspetto più propriamente fantascientifico della storia per immergerla nel vuoto che precede i grandi incontri della vita e quello che segue il distacco da essi, quello che attende al cospetto della morte e quello scalzato con un battito di ciglia dall’avvento della vita, infine il vuoto lasciato dai figli, che cercano, nel percorso fisiologico e naturale dell’essere, il proprio sentiero affettivo ed esistenziale lontano dalle braccia materne.