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The Master

07/09/2012 11:00

Erika Pomella

Recensione Film,

The Master

Freddie Quell (Joaquin Phoenix) è un militare che, a seguito della seconda guerra mondiale alla quale ha partecipato come marine, si ritrova con i nervi a pezzi

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Freddie Quell (Joaquin Phoenix) è un militare che, a seguito della seconda guerra mondiale alla quale ha partecipato come marine, si ritrova con i nervi a pezzi e una vera e propria ossessione per il sesso. Dopo una serie di lavoretti saltuari ed esperimenti alcolici che prevedono tinture e veleni vari, Freddie si imbatte casualmente in Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), uomo carismatico con velleità che vanno dalla letteratura alla medicina. Affascinato dalla psiche dell’ex soldato, Lancaster decide di prenderlo sotto la propria ala e di istruirlo alla "Causa", una dottrina che cerca nelle vite e nelle esperienze passate la cura per i mali individuali del presente. Con un passato travagliato alle spalle, Freddie si lascia irretire da quest’uomo e accetta tutti i consigli di questo Maestro e della moglie (un’inquietante e affascinante Amy Adams).


Un gioco di rimandi e riflessi si concretizza alla perfezione nel rapporto dei due protagonisti di The Master, un film costruito quasi interamente sulle straordinarie capacità interpretative dei due attori principali, a cui si aggiunge una Amy Adams che dimostra - qualora ce ne fosse ancora bisogno - di essere un’attrice completa e piena di talento. Frieddie Quell e Lancaster Dodd, uno il doppelganger dell’altro, sono le due facce di una stessa medaglia: entrambi pieni di rabbia e aggressività spesso repressa, entrambi con forti pulsioni di stampo sessuale, rappresentano uno l’evoluzione e l’involuzione dell’altro. Freddie è un alcolizzato autolesionista che dà alle ceneri tutto ciò che rischia di renderlo felice. Lancaster, d'altra parte, è riuscito ad incanalare la rabbia e l’ebbrezza sotterranea a favore di una dottrina che ha tutta l’aria di una setta, della quale lui è padre, padrone e capo indiscusso, che interroga e tortura. Più di tutto, però, i due personaggi sono le maschere perfette del cinema di Anderson, che si palesa attraverso l’analisi di una grande solitudine. Benché condividano uno spazio circoscritto e siano sempre circondati da adepti fedeli, Freddie e Lancaster sono in realtà soli, a combattere contro un mondo che non li capisce e non li accetta; allo stesso modo in cui lo era il Daniel Day Lewis de Il Petroliere, che scendeva nelle viscere della terra, a scavare tra fango e sangue. I due protagonisti di The Master si perdono nel loro solipsismo in mezzo alla gente, proprio come accadeva alla rumorosa galleria di personaggi di Boogie Nights; cercano appiglio l’uno nell’altro, scambiandosi di ruolo, ruggendosi contro, scivolando all’interno di abbracci disperati, alla spasmodica ricerca di qualcosa che dia senso a tutto. Ed è nel tentativo di seguire questa perenne solitudine che Anderson lascia la sua firma: dai piani sequenza che seguono i personaggi, fino ai piani ravvicinati che cercano di entrare sottopelle, penetrando i personaggi in maniera quasi oscena.


C’è un’ossessione che serpeggia lungo tutta la narrazione e che si concretizza in uno stile a volte ridondante, ma che riesce sempre nell’intento di creare un universo viscerale e disturbante dove a farla da padrone è una storia d’amore non convenzionale: non omosessuale, ma neanche semplice stima che lega un maestro al suo allievo. Si tratta piuttosto di due anime affini che si riconoscono, selvatiche per natura, che urlano la propria individualità contro il mondo intero. L’America degli anni cinquanta sparisce, così come si dissolvono i vari – spesso non troppo velati – richiami a L. Ron Hubbard, teorico della Dianetica e fondatore di Scientology. Chi si aspettava un attacco al mondo delle sette e al loro potere di plagio, rimarrà deluso. Quello che Anderson porta in scena – in 137 minuti che non sempre si srotolano con facilità – è una storia di seduzione, amicizia e rinascita. La diegesi a volte rallenta, si ferma bruscamente perdendosi in immagini rarefatte. Poi, di colpo, riprende vita, in scoppi d’ira fragorosi, in dialoghi quasi criptici e in quella nota surreale che da sempre si insinua nel cinema del regista. Le note di On a slow boat to China, alla fine, giungono a dare una dimensione ancor più romantica al ritratto commovente e convincente di due uomini alla deriva che, tuttavia, lottano disperatamente per non affondare.


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